Scritto da © nunzio campanelli - Dom, 08/09/2013 - 07:22
Quando si sporgeva appoggiandosi alla balaustra del soppalco, lo sguardo vigile e fisso su un punto lontano, la mano destra tesa a proteggere gli occhi dai bagliori di un sole immaginario, il viso segnato da una cicatrice lividamente bianca che sembrava dividerlo in due parti come se fosse il risultato dello schianto di un fulmine scagliato dall’alto, c’era da aspettarsi che da un momento all’altro si potesse udire un grido provenire dalla coffa di un veliero e all’orizzonte si profilasse il soffio alto e severo di Moby Dick. Che cosa ci facesse in quella biblioteca, come potesse un uomo come quello diventare il bibliotecario della sezione Fondi antichi erano quesiti che ogni persona posta alle sue dipendenze si poneva tutti i giorni. Gli impiegati della biblioteca lo avevano soprannominato Achab, per via della forte somiglianza con un’immagine tratta dall’opera di Melville, dove il capitano del Pequod viene raffigurato nel momento in cui inchioda un doblone d’oro all’albero di maestra del vascello. A dire la verità, più d’uno tra il personale era pronto a giurare che il bibliotecario fosse il capitano Achab in persona, approdato infine a vita reale in forza di chissà quale sortilegio e di chissà quale forza oscura. Molti di costoro, quando venivano fissati a lungo dal bibliotecario, e quello sguardo vivido sembrava volesse dragare in profondità le loro menti, si segnavano il volto e con timore guardavano a terra.
Negli ultimi tre anni, da quando il nuovo bibliotecario aveva preso il posto del dottor Foschi, mandato in pensione poco dopo il grande crollo del tetto di quell’ala della biblioteca, diverse storie erano andate serpeggiando di bocca in bocca tra il personale. Storie strane, che narravano di personaggi in costume apparsi subito dopo il grande crollo, travestiti come i protagonisti dei libri sommersi dalle macerie, che se ne andavano in giro per la città liberi di compiere i propri comodi e di creare scompiglio tra la gente comune. Si narrava inoltre di una tribù di nani assoldata dal dottor Foschi per ricostruire nel più breve tempo possibile le strutture murarie e per catturare tutte quelle strane persone in maschera per farli rientrare nei libri dai quali provenivano. Si diceva infine che per tutto questo lavoro occorsero solo tre giorni, e che allo spirare del terzo giorno quegli esseri minuscoli se ne andarono con la stessa rapidità con la quale si erano manifestati. Tutte queste storie, comunque, non potevano essere confermate da testimoni poiché subito dopo tali eventi i dipendenti anziani furono mandati in pensione e quelli più giovani trasferiti d’autorità in altre sedi lontane e a nessuno, tra i nuovi assunti, si consentì di conoscere l’indirizzo dei primi e il recapito dei secondi.
È risaputo che quando si tenta di celare un fatto realmente avvenuto, di nasconderne le tracce e le testimonianze, di voler insomma far credere che non sia mai esistito, la tal cosa cessa di essere annoverata tra le storie aventi un fondamento di realtà per approdare di gran carriera nel mistero delle cose sussurrate, alimentandosi di qualsiasi storia sia diffusa senza nemmeno più l’obbligo di verificare la veridicità dei fatti. Così le autorità, per tacitare una storia che se lasciata spegnersi da sola con il trascorrere del tempo non avrebbe prodotto nessun fastidio, si vedevano costretti a fronteggiare un mito che minacciava di tramutarsi in leggenda.
Il nuovo bibliotecario, di cui nessuno conosceva il nome limitandosi gli impiegati a chiamarlo con l’appellativo di “dottore”, non sembrava essere molto preoccupato dal diffondersi di queste storie. Non solo non se ne curava, ma compiva atti che invece sembravano fatti apposta per alimentare ancora di più il mistero. Una mattina chiamò a raccolta tutto il personale diffondendo un foglio nel quale erano elencati gli autori le cui opere presenti in biblioteca dovevano essere trasportate immediatamente nel suo ufficio. Quando si apprese che tra gli autori era indicato anche il nominativo di Melville e che dalle varie edizioni di “Moby Dick” che via via venivano prelevate dagli scaffali erano improvvisamente sparite tutte le immagini che raffiguravano il capitano Achab, il terrore si diffuse tra il personale della biblioteca, che si radunò nella grande sala di lettura rifiutandosi di proseguire il lavoro. Una giovane impiegata cominciò a mormorare un nome, dapprima a bassa voce, poi sempre più forte finché la sua voce divenne urlo. Le voci si moltiplicarono, le urla si sovrapponevano tra loro, infine diventarono coro:
- Achab! Capitano Achab! –
Sputato fuori dalla gola da decine di voci quel nome materializzò all’improvviso un’immagine. Fuori del suo ufficio, sul soppalco di legno che sporgeva quale balcone sulla sala, era il capitano Achab in persona, in divisa e con tanto di gamba fatta con la mascella di una balena (fino a quel momento tenuta nascosta chissà come). Percorreva il perimetro del soppalco con il suo tipico passo alternando il soffice contatto del cuoio dello stivale con il secco battere del puntale di bronzo della gamba artificiale. Una carezza e uno schiaffo. Uno schiaffo e una carezza. Il personale ammutolì. Il capitano osservava dall’alto quella scena come se la sala fosse deserta. I suoi occhi erano fissati su obiettivi che valicavano i confini fisici della biblioteca, oltrepassando pareti, colline e montagne per arrivare fino al mare. Lentamente iniziò a parlare.
- Sì, sono io. Il capitano Achab. Come può essere possibile? La questione non ha alcuna importanza. Sappiate solo che la mia esistenza fisica risulta inspiegabile per voi tanto quanto la vostra possa esserlo per me. Tutte le volte che qualcuno apriva un libro per leggere la mia storia io provavo dolore nel verificare la distanza che separa il mio mondo dal vostro. Distanza che si annulla solo in circostanze particolari, come nel caso del crollo del tetto della biblioteca, che rischiò di provocare la perdita dei libri. Quando un libro è in pericolo, quando la sua stessa sopravvivenza è minacciata, allora ci viene consentito di uscirne per alcuni momenti, il tempo necessario per verificare se il libro stesso perirà o potrà salvarsi. Nel secondo caso vi rientriamo subito, mentre nel primo caso rimaniamo nel vostro mondo come presenza eterea, divenendo “L’anima del libro”. Quando crollò il tetto, potevano accadere entrambe le cose. Per questo vi fu possibile vederci. Per questo io sono ancora qui.”
Quest’ultima affermazione provocò esclamazioni di meraviglia tra gli impiegati. Achab continuò.
- Sì perché i libri sono tuttora in pericolo, possono ancora andare distrutti. No, non per il crollo del tetto, che quello è stato ricostruito bene. Quelli dei Fondi antichi sanno fare il loro mestiere. I libri si possono distruggere in molte maniere, la più efficace delle quali consiste nell’ignorarli. Guardate questa biblioteca. Eravate una moltitudine ai tempi del dottor Foschi, oggi siete forse la metà e fra poco probabilmente questa struttura dovrà essere chiusa. Il motivo lo sapete bene anche voi. Nessuno legge più i libri, e i libri vivono solo se vengono letti. Io fra poco ritornerò al mio posto, che il mio compito è finito. Ritornerò a vivere la mia angoscia, è il solo modo di vivere che io conosca, ed è il solo modo possibile per evitare che tutti quei momenti non scivolino via come lacrime sotto la pioggia.-
Prima ancora che qualcuno tra il personale potesse rendersi conto, il capitano Achab rientrò nell’ufficio chiudendo la porta alle sue spalle. Nessuno lo vide più. Nel frattempo la sua immagine stava riprendendo posto nelle varie edizioni di Moby Dick ammucchiate sopra la scrivania. Intanto l’imponente scalinata che conduceva all’ingresso della biblioteca veniva impegnata da un distinto signore anziano, che all’approssimarsi dell’usciere tirò fuori dalla tasca della giacca una lettera ministeriale e gliela consegnò, insieme ai documenti di riconoscimento. L’impiegato lesse a voce alta:
- Dottor Foschi, bibliotecario in pensione richiamato in servizio.-
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