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Sporcare il Web. Un articolo di Beppe Severgnini

Propongo questo articolo di  Severgnini il quale, a mio avviso,  ben sintetizza e rappresenta l'attuale situazione diffusasi  attraverso un certo  utilizzo del web.
 
Sporcare il Web è una vergogna. E un reato.
di Beppe Severgnini
da IlCorriere.it del 04.05.2013

Una donna italiana ha dovuto leggere espressioni sconce, guardare immagini vergognose, subire allusioni disgustose. Non è importante che quella... donna, oggi, sia presidente della Camera. «Minacce di morte, di stupro, di sodomia, di tortura», ha riassunto Concita De Gregorio, che l’ha intervistata per Repubblica. «Accanto al testo, spesso, ci sono immagini. Fotomontaggi: il suo volto sorridente sul corpo di una donna violentata da un uomo di colore, il suo viso sul corpo di una donna sgozzata, il sangue che riempie un catino a terra. Centinaia di pagine stampate, migliaia di messaggi».

Questa non è libertà: è sopraffazione. Impedire queste cose non è censura: è buon senso. Smettiamola di considerare il web come il luogo franco dove tutto è lecito: offendere, minacciare, ricattare, vomitare insulti. Lo abbiamo fatto con gli stadi di calcio, e abbiamo visto com’è finita.

Internet è troppo importante perché una minoranza di predoni, camuffati da libertari, possa rovinarla. Perché questo avverrà, se andiamo avanti così. Qualcuno invocherà leggi speciali: e arriveranno. Le leggi speciali, invece, non servono. Sono sufficienti quelle esistenti. Basta applicarle.

Minacce, diffamazione, ricatti e ingiurie sono reati: dovunque vengano commessi. La mia libertà di espressione si ferma davanti alla vostra libertà di non essere calunniati, offesi, spaventati. Il web non è un mondo parallelo con regole proprie; è invece un fantastico strumento di condivisione e comunicazione. Non il primo, nella storia dell’uomo. Quand’è nata la televisione, nessuno ha detto: «Ehi, non è un giornale, è un mezzo nuovo! Usiamolo per minacciare, diffamare, insultare!». Tutti hanno pensato: è uno strumento molto potente, richiede molta attenzione.

È giusto che mezzi riservati solo a poche categorie siano a disposizione di tutti. Anzi: è magnifico, anche se questa trasformazione ha messo in difficoltà il mondo dei media, precipitati nella più grave crisi industriale della propria storia. Fino pochi anni fa, solo giornalisti, autori, conduttori televisivi e radiofonici potevano far conoscere le proprie opinioni al pubblico. Oggi tutti possono dire tutto a tutti, in ogni momento e da ogni luogo. Ma devono ricordare: un grande potere comporta una grande responsabilità.

L’offesa, invece, sta diventando consuetudine. Ci sono migliaia di persone per cui scrivere a un personaggio pubblico «Se ti trovo ti uccido!» o «Meriti una pallottola tra gli occhi!» è uno sfogo, protetto da una gioiosa impunità. Frasi del genere erano sgradevoli, se pronunciate tra gli amici al bar. Scritte su Facebook o rilanciate da Twitter possono avere una diffusione esponenziale, e diventano un’altra cosa. Non è più una questione di cattivo gusto; è materia di diritto penale.

Domenica, dopo la sparatoria davanti Palazzo Chigi, Laura Boldrini ha commentato, forse per imperizia: «La crisi trasforma le vittime in carnefici». La crisi c’è, le vittime ci sono; le colpe, anche. Ma non bisogna concedere attenuanti alla violenza. Neppure alla violenza verbale. Altrimenti qualcuno penserà che un’ingiustizia — e quante ce ne sono, purtroppo — possa giustificare qualunque cosa: sconcezze, odio, deliri aggressivi. Questa non è libertà: è un ritorno all’età della pietra. Ma un urlo dalla caverna arrivava a venti metri; un tweet minaccioso parte dal nostro tavolo e fa il giro del mondo.

Provi pensare questo, chi ha vomitato assurdità dopo l’attentato al brigadiere Giangrande: se i carabinieri, angosciati per la sorte di un collega, volessero conoscere nomi, cognomi e indirizzi degli autori di certi commenti violenti, lo potrebbero fare senza difficoltà. Firmarsi @odioilmondo non consente di scrivere «Vi devono ammazzare tutti!». Non è solo una frase idiota, disumana e odiosa. È apologia di reato e istigazione a delinquere (art. 414 codice penale).

Gli irresponsabili del web, quasi sempre nascosti dietro l’anonimato, sono solo una minoranza chiassosa. Chi ha cuore la libertà della rete — quella vera — intervenga prima che sia tardi. Ricordando agli interessati che scherzano col fuoco. Gli strumenti per conoscerne le loro identità ci sono, come dicevamo; le norme penali anche. Manca, purtroppo, una giustizia lineare, rapida e proporzionata. Le sanzioni italiane, infatti, sono sempre spaventose, lente e improbabili; quando dovrebbero essere ragionevoli, rapide e certe.

Ha ragione Arianna Ciccone, organizzatrice del Festival Internazionale del Giornalismo a Perugia: «Le leggi che valgono nella vita “fisica” sono le stesse che valgono nella vita “virtuale”. Il punto è farle applicare, ma anche nella vita reale». L’impotenza giudiziaria italiana — condita di parole, profumata di retorica, coperta dalle solite enunciazioni di principio — ci sta presentando il conto. C’è chi si permette di non pagare un lavoro o una fornitura, e irridere il creditore («Avanti, fammi causa!»); e chi può minacciare, insultare e diffamare, sapendo di farla franca.

Minacciare, insultare o diffamare sul web non è un’attenuante, ripeto. È un’aggravante, invece. Perché il web è potente, geniale, libero, egualitario. Sporcarlo è un una vergogna, non soltanto un errore.

 

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