Scritto da © Antonio Cristof... - Ven, 12/04/2013 - 03:55
IL DIAVOLO DIMENTICATO - racconto tratto dalla mia raccolta "AD OCCHI APERTI" storie di fantasmi, streghe ed altre apparizioni -
4^ ed ultima parte
Da quegli eventi trascorsero due anni, durante i quali Michele riprese il suo lavoro con l’appoggio dell’amico Matteo, avvocato civilista. La cosa, però, non durò a lungo, perché il giovane prese a far vita dissoluta con bagordi notturni e donnine di malaffare. Cominciò anche a drogarsi, dapprima con semplici “spinelli”, poi con pasticche di “estasi”. Aveva dimenticato completamente quella sua brutta avventura! Aveva dimenticato il diavolo!
Quando Matteo gli presentò Giovanna, la sua fidanzata, studentessa in giurisprudenza prossima alla tesi, Michele rimase quasi folgorato dalle fattezze della ragazza: non faceva altro che pensare a lei mattina e sera; l’immagine della giovane era tanto ricorrente nella sua mente da determinare una vera ossessione che, inizialmente, si manifestò solo con una modesta sofferenza, ma poi via via cominciò a proporsi nei sogni con immagini di sesso sfrenato. Ma, come aveva scritto il dottor Russo nella sua relazione, Michele aveva difficoltà nei normali rapporti con le donne, per questo, naturalmente, rivolgeva le sue attenzioni a chi poteva dargli l’amore prezzolato, senza fronzoli, senza preamboli, che rappresentavano per lui un vero e proprio problema, tanto grave ed acuto da indurlo al balbettio e ad una spropositata e sgradevole sudorazione, ogni volta che tentava un approccio. Fu proprio Matteo a fargli da inconsapevole intermediario con Giovanna. Michele cominciò a frequentarlo maggiormente, a cercarlo a casa, accompagnarlo fuori, invitarlo a cena. Con loro, sempre più spesso, usciva Giovanna; andavano al cinema, in discoteca, a giocare a tennis. E fu appunto durante una partita di tennis che accadde un fatto scabroso ed inaspettato. Mente Matteo faceva la doccia, Michele, bevendo una bibita, sedeva esausto su una panca lì accanto. Proprio di fronte a lui, da un finestrino laterale, s’intravedeva appena lo spogliatoio femminile, e il giovane vide Giovanna completamente nuda. Turbato, girò la testa verso l’amico e, o perché eccitato, o per la latente omosessualità, già denunciata tempo prima nella relazione del dottor Russo, o, peggio, per uno scambio di identità tra Matteo e Giovanna, si avvicinò all’amico e cominciò a toccarlo e baciarlo dappertutto. Questi, coinvolto ed ansimante, si lasciò andare in quel vortice peccaminoso ed innaturale, mentre l’acqua della doccia veniva giù fitta e tiepida, e bagnava i due corpi, avvinghiati l’uno all’altro, in un amplesso animalesco, intanto che il suo scroscio ne copriva i gemiti.
Durante quella stessa notte, Michele non riuscì a chiudere occhio: l’immagine della nudità di Giovanna lo perseguitava. Sognò che la ragazza si tramutava in una statua di marmo e diveniva parte di una fontana al centro di una piazza. L’acqua sgorgava dai suoi organi genitali e dal suo seno. Con quell’acqua cristallina egli, lasciando che gli zampillasse sul volto, si dissetava voluttuosamente, quando, d’improvviso, il viso dolce e ceruleo di Giovanna si tramutò in quello purpureo e rugoso di un orrendo demone. Si destò allora di soprassalto e lanciò un urlo lungo e possente, da svegliare la madre che dormiva nella stanza accanto.
Il mattino dopo telefonò alla ragazza e, balbettando, le diede appuntamento per il primo pomeriggio su alla collina dei Camaldoli:
- Ti devo parlare di Matteo…- le disse.
S’incontrarono alle due presso il traliccio dell’antenna della RAI. Si tratta di una zona poco abitata, dove ancora domina il verde di una campagna, ormai soffocata dall’asfalto che la cinge d’assedio. Una stradetta discende verso una sorta di belvedere naturale, dove l’occhio spazia fino a Coroglio ed oltre, fino al mare, all’isola d’Ischia. Su una piccola radura si erge lo scheletro di una struttura di una villa, che qualcuno aveva cominciato a costruire, ma che le autorità preposte avevano bloccato, senza, ancor oggi, mai più abbatterlo.
I due s’inoltrarono in quell’accenno di costruzione, i cui piani, retti a malapena da usurati pilastri, degradavano, l’uno sull’altro, verso il basso ed erano messi in comunicazione tra loro da grezze scale. Scesero in quel che sarebbe stato lo scantinato, se la villa fosse stata edificata. Qui Giovanna, incrociando le braccia e guardando il panorama, chiese: - Allora, cosa hai da dirmi di così tanto importante di Matteo?-. Michele, come al solito, balbettava e passeggiava nervosamente avanti e indietro: - Di…Ma-Matteo..nu-nulla. La ve-verità è che… ho da-da pa-parlarti di no-noi due! -
- Di noi due? E cosa c’è da dire di noi due? – sorrise Giovanna, voltandogli ancora le spalle.
- Io…Io…- . Si avvicinò alla ragazza, in un attimo pensò che non avrebbe mai trovato le parole per dire quello che avrebbe voluto, allora le strinse un braccio con una mano tanto sudata da scivolare sulla carne di lei. –Mi fai male! – gridò la donna. Michele, per tutta risposta, le afferrò anche l’altro braccio per tenerla ferma, voltata, come se non avesse voluto guardarla in faccia. Tremava tutto e non riusciva più a profferir parola. Giovanna, sentendosi in pericolo, reagì cercando di divincolarsi, ma la forza del giovane ossesso era tale, da aver ben presto ragione di lei, che, immobilizzata anche dal terrore, cedette ad una violenza oscena, senza limiti, messa in atto da Michele nel modo di un preciso cerimoniale che lo induceva a ripetere frasi senza senso e a pregare, come per scongiurare la possibilità che il pensiero ossessivo lo inducesse finanche al delitto.
Giovanna, per vergogna, tacque di quell’avvenimento a Matteo e cercò, poi, di evitare di uscire con lui quando c’era anche Michele. Se proprio era inevitabile, cercava di non incrociarne lo sguardo e diveniva nervosa e taciturna.
Furono Giacomo e Paola, due fidanzatini amici di Giovanna e Matteo, ad avere l’idea di organizzare un fine settimana in campeggio nella zona delle “Tavernole”, su una sponda del Rio del Cattivo Tempo, proprio dove esso confluisce nel Volturno. Si tratta di un posto dove la vegetazione è rigogliosa e le farfalle brulicano sui cespugli di more selvagge, sulle margherite e sui tenaci papaveri; le rane gracidano nelle acque ristagnanti tra migliaia di girini che guizzano e si agitano confusamente. La zona, ancora in parte malsana, aveva colpito la fantasia dei giovani per il nome particolare del corso d’acqua che l’attraversa, poco più di un torrente che, a seguito delle piogge che avvengono a monte, straripa improvvisamente e di frequente, inondando il terreno circostante. I contadini del luogo narravano, nei tempi passati, una leggenda secondo la quale era coinvolto il diavolo. Pare che dalle acque del fiume, durante la notte, uscisse un diavolo di nome Kyra, una vampira con lunghi capelli neri, il cui dominio era l’amore e la lussuria. Ella succhiava il sangue dei giovani braccianti, rendendoli schiavi della sua volontà ed elementi delle sue legioni occulte. Kyra aveva tanto infestato quella zona da formare oltre sessanta legioni di demoni, al comando delle quali aveva messo Abigor, dio malefico della guerra. Tutti questi diavoli avevano causato uccisioni e faide fra gli abitanti del posto. Gli indigeni non amavano parlare molto di quella leggenda, ed, anzi, al calar delle tenebre, non uscivano di casa se non per motivi strettamente indispensabili. Dal circondario di Presenzano, fino al bivio delle “Tavernole”, passate le sei del pomeriggio, non si vedeva in giro anima viva. Le vie erano deserte; le imposte delle finestre e dei balconi: irrimediabilmente serrate; perfino gli unici due bar del luogo avevano le serrande abbassate.
Le due auto s’inoltrarono in una stradetta impolverata e avanzarono fin dove fu possibile arrivare. Poi, i nostri sei amici proseguirono a piedi per un sentiero, grazie al quale raggiunsero una radura sulla sponda del fiume. Qui, con fare allegro e scanzonato, montarono due tende nelle quali sistemarono tutto quello che si erano portato dietro.
La sera, il concerto della ranelle cominciò ben presto. I sei ragazzi erano seduti a semicerchio intorno ad un fuoco che scoppiettava confortevolmente, appena mosso da un leggero venticello che correva attraverso le tremule foglie di un pioppo che sorgeva proprio in mezzo allo spiazzo nel quale si erano accampati. Il cielo era un manto costellato di punti argentini, che brillavano ad intermittenza; l’usignolo estasiava con la sua voce sospesa ad un filo di luna; e tanto era intenso l’incantesimo suscitato dalla dolcezza di quel canto che tutta l’ombra notturna si sentiva fremere e vibrare, come percorsa da brividi. Poco lontano, su un altro ramo, c’era accovacciato un corvo!
I ragazzi cantavano allegramente in coro; tutti, tranne Michele che se ne stava leggermente in disparte, e Giovanna, che ad un certo punto si alzò e si allontanò verso la riva del fiume. Matteo la raggiunse poco dopo, seguito dallo sguardo di Michele.
- Dite, cosa ci sarà di vero nella leggenda che si racconta da queste parti? – chiese Pietro, smettendo di cantare e alimentando il fuoco con alcuni ramoscelli secchi.
- Quella del demone vampiro? – rispose Giacomo: - Mi pare si chiamasse Kyra. Era una donna bellissima, dalla folta e lunga capigliatura nera, che andava a mordere i giovanotti del posto. Chissà, poi, dove li mordeva?- rise.
- Spiritoso! - intervenne Paola: - Vi prego di lasciar perdere questi argomenti, mi mettono paura…-
- Sono leggende. - disse, ancora ridendo, Giacomo.
- Già, ma in ogni leggenda c’è sempre un fondo di verità. - rispose Pietro.
- Forse si trattava di una ninfomane che si ripassava tutti i contadinelli della zona. – concluse Giacomo. Intanto Giovanna, ferma sulla riva del fiume, guardava l’acqua scorrere velocemente in un gorgoglio continuo e monotono., Matteo, che le era da presso, seduto su una grossa pietra, le chiese: - Cosa c’è che non va?-. – Nulla, sto bene…- rispose la ragazza.
- C’è una bella luna in cielo…- disse Matteo, sospirando.
- In cielo! Ma in terra non c’è nulla di bello. – rispose Giovanna e con violenza lanciò in acqua una pietra piatta e levigata che rimbalzò un paio di volte sulla superficie e poi s’inabissò.
Il corvo lasciò il ramo sul quale era appollaiato poco lontano, e, con un sinistro battito d’ali, si alzò in volo per andarsi a posare su una spalla di Michele. Il giovane dovette sopportare un peso enorme (ben più grave di quello di un comune piccolo uccello), che lo immobilizzò, impedendogli qualunque movimento, e senza che i suoi amici, poco lontano, s’avvedessero di nulla.
Dopo quel brutto episodio capitatogli tempo prima, Michele non aveva provveduto a schermare il suo spirito da altri eventuali attacchi del demonio che in lui aveva già trovato buon albergo. Il suo animo era rimasto disadorno di valori, spazzato di principi etici e morali. Fu così, facile per il diavolo riprendervi dimora: Phoenix portò con se altri sette demoni, più cattivi e terribili di lui, e la condizione di quell’uomo divenne peggiore della precedente. Attraverso l’orecchio, penetrarono nel corpo di Michele, con il marchese della letteratura e della poesia, Abigor, demone della guerra; Andras, marchese della discordia; Asmodeus, re della lussuria, seminatore di orrore e caos; Eligor, signore del delitto; Ose, principe della follia; Kyra, regina del peccato; Pazoozo, duca della distruzione.
Durante la notte si scatenò una tempesta di pioggia e vento, di tale impeto che le acque del Rio s’ingrossarono e, straripando, andarono a circondare completamente la radura nella quale erano accampati i giovani, rendendola, praticamente, un’isoletta tra il tormento del fiume. Null’altro si udiva se non lo scroscio violento della pioggia sulla vegetazione che ondeggiava al vento insistente. Il Rio era ormai un fiume in piena, irrequieto e turbolento, nel quale scorrevano velocemente, rami, fango e cespugli. Matteo fu svegliato dal saettare di una folgore, e il conseguente rombo del tuono impaurì Giovanna che lo abbracciò. Fu allora che notarono l’assenza di Michele: il suo sacco a pelo era vuoto! Uscirono fuori, e Matteo cominciò a chiamare a gran voce l’amico. Dall’altra tenda, preoccupatissimi, uscirono anche Pietro, Paola e Giacomo. Pioveva sui loro volti, sulle loro mani, sui loro abiti, sulle loro anime!
- Michele! –urlava nel vento Matteo.
- Michele! Michele! –ripetevano, Pietro e Giacomo.
- Guardate…- disse nel frastuono Paolo: - Siamo completamente circondati dall’acqua! Non ci sarà mica pericolo?-
- Siamo abbastanza in alto…- rifletté speranzoso Giacomo.
- Vado a cercare Michele. – disse Matteo, e, prima che qualcuno potesse fermarlo, si allontanò e scomparve, sotto la pioggia battente, nel buio minaccioso della notte. Giovanna, inzuppata d’acqua fino al midollo, rientrò nella sua tenda dove, con sua grande meraviglia, bagnato ed infangato, ritrovò proprio Michele. Non ebbe neanche il tempo di dire una parola, che questi la colpì in testa col martello che era servito per piantare in terra i picchetti della tenda. Con gli occhi sbarrati, la ragazza si accasciò al suolo in un mare di sangue, senza emettere neanche un gemito.
Fuori, gli altri gridavano: - Michele…Matteo…dove siete?
Pietro notò un movimento tra i cespugli dietro di sé, poco lontano. Si avvicinò per vedere cosa fosse e scostò gli arbusti con le mani. Improvvisamente balzò fuori un grosso corvo che andò ad infilare il becco in un occhio del giovane, fino a trafiggergli il cervello e, quindi, a fulminarlo sul colpo. Prima di cadere, Pietro, lanciò un urlo disumano che attirò l’attenzione di Giacomo e Paola. Lo trovarono con la testa immersa in una pozza d’acqua. Paola gridò per il terrore e Giacomo l’afferrò, cercando di calmarla, ma lui stesso era sconvolto.
- Portami via! Portami via subito da questo posto maledetto! – urlò Paola con quanto fiato aveva in gola. S’immersero nell’acqua, sorreggendosi l’uno all’altra, per lasciare l’isolotto e raggiungere la zona di terra non invasa dal fiume. Procedevano a malapena sotto la pioggia sempre più intensa, tra i vortici e con il vento che toglieva il respiro. D’un tratto, proprio davanti a loro, sorse dalle acque la figura, quasi irriconoscibile, di Michele, tanto era coperta di fango e di alghe! Questi li afferrò entrambi per la gola e li trascinò sotto.
Poco dopo la pioggia diminuì d’intensità, gli scrosci, variando secondo le fronde più o meno folte, si attenuarono, il vento calò e, man mano, le rane ricominciarono a gracchiare nell’ombra. Il rombo dei tuoni si allontanò e le saette lanciavano appena lontani bagliori.
Michele era seduto, con il corvo su una spalla, appoggiato con la schiena all’albero al centro della radura. Da dietro il tronco comparve, allora, Matteo, che prese per mano il giovane, lo condusse sulla riva del fiume, le cui acque cominciavano già a defluire dalle zone allagate. Qui si fermò, lo guardò e disse: - E ora di andare dal padre Satana, principe di questo mondo. Vieni, anima mia, vieni con me, vieni con Belial![1] – S’immersero nelle acque del fiume e scomparvero per sempre.
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- Blog di Antonio Cristoforo Rendola
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