Il diavolo dimenticato -Prima parte- | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

Login/Registrati

To prevent automated spam submissions leave this field empty.

Commenti

Sostieni il sito

iscrizioni
 
 

Nuovi Autori

  • laprincipessascalza
  • Peppo
  • davide marchese
  • Pio Veforte
  • Gloria Fiorani

Il diavolo dimenticato -Prima parte-

diavolo dimenticato.JPG

IL DIAVOLO DIMENTICATO

( tratto dalla mia raccolta di racconti "Ad occhi aperti")

 
 

 

 

 

I PERSONAGGI PRINCIPALI

 
Michele  
Matteo, suo amico
Giovanna, fidanzata di Matteo

 

ALTRI PERSONAGGI

La madre di Michele
Giacomo
Paola, la sua fidanzata
Pietro
Un cliente di Michele
Il dottor Russo, psichiatra del manicomio di Nocera
Padre Pelezani, prete esorcista
Suor Carmela
Un medico
Un’infermiera
Il giardiniere
I pazzi del Manicomio di Nocera Inferiore

 

I DEMONI

Phoenix, Kyra, Abigor, Andras, Asmodeus, Eligor, Ose, Pazoozo, Belial
 
 
 
 
 
 
“Quando lo spirito immondo esce da un uomo, se ne va per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: - Ritornerò alla mia abitazione, da cui sono uscito.- E, tornato, la trova vuota, spazzata ed adorna. Allora va, e con altri sette spiriti peggiori, entra a prendervi dimora; e la nuova condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima. Così avverrà anche a questa generazione perversa.” (Mt. 12, 43 seg.)
 
Il fiume Volturno nasce dal monte Rocchetta, in provincia di Campobasso. Attraversa larga parte del territorio beneventano e, nella provincia casertana, riceve a destra tre affluenti, tra cui il Rio del Cattivo Tempo, così chiamato per i suoi frequenti e repentini straripamenti. Si tratta di un corso d’acqua che ha origine presso Conca della Campania col nome di Fosso Pubblico, e si unisce al Volturno presso il bivio delle “Tavernole” situato sulla s.s. 85 che da Capua porta a Venafro. Quest’arteria, che si snoda ritta e veloce attraverso campi di patate, carciofi, ed è ombreggiata da pini, pioppi, noci e fichi a larghe foglie, sfiora centri caratteristici come Pignataro, Riardo e Caianello, prima di inoltrarsi nel Lazio rasentando Roccamonfina e Valle Cupa.
 
Su questa strada viaggiavano tranquillamente, in uno splendido giorno di fine estate, due automobili, una dietro l’altra. La prima era guidata da Matteo, mentre Giovanna, la fidanzata, gli stava accanto e Michele, l’amico, era seduto dietro; nella seconda, condotta da Giacomo, avevano preso posto Paola, la sua ragazza, e Pietro, un altro amico. I sei giovani, tutti in età compresa tra i diciannove e i trentadue anni, avevano deciso di trascorrere un fine settimana su una delle rive del Rio del Cattivo Tempo, proprio in località “Le Tavernole”, dove delle ampie radure offrivano la possibilità di fare campeggio  ad un passo dalle acque. Erano partiti da Giugliano in Campania nella tarda mattinata e, verso mezzogiorno, si trovarono sulla statale all’altezza di Riardo. Si erano tutti conosciuti nell’ambito dello stesso ambiente: Pietro, Giovanna e Paola erano studenti in giurisprudenza, mentre Matteo e Giacomo erano avvocati ed esercitavano la loro attività gestendo uno studio legale in comune. Solo Michele apparteneva ad un ramo lavorativo leggermente diverso:  era un perito industriale e s’interessava d’infortunistica stradale. Proprio a quest’ultimo era accaduto, due anni addietro, un fatto misterioso e particolare. Egli era un giovane di bell’aspetto, ma di carattere introverso. Figlio unico di madre vedova. Il padre, onesto lavoratore di uno stabilimento automobilistico di Pomigliano d’Arco, aveva abbandonato questo mondo pochi mesi dopo essere andato in pensione, ma, grazie alla sua oculatezza ed alla sua laboriosità, aveva lasciato moglie e figlio in buone condizioni economiche, con un piccolo conto in banca ed una casa di proprietà. I rapporti con Michele non erano mai stati, certo, troppo idilliaci: la scontrosità del giovane, il suo naturale egoismo, la sua immaturità, ed, in certi casi, la sua arroganza, combattevano con la socievolezza e la disponibilità dell’uomo che, in ogni caso, cercava nel figlio doti che questi non aveva, senza mai cercare di individuare quelle che invece possedeva, poche per la verità.  Michele aveva aperto un piccolo studio d’infortunistica, pratiche automobilistiche ed assicurazioni, e proprio per questo aveva conosciuto Matteo e Giacomo. Faceva capo, infatti, al loro studio legale per atti di “messa in mora” e “citazioni” alle varie società assicurative nell’ambito della risoluzione dei tanti “sinistri” autostradali che gli erano proposti. Per la verità, a Qualiano, in provincia di Napoli, dove Michele aveva avviato la sua attività, non mancava certo un’agguerrita concorrenza. Per questo, il lavoro non rendeva poi tanto, anzi, non procedeva per niente bene. Lo studio era situato nella piazzetta principale del piccolo centro agricolo ed il giovane abitava poco lontano, in una località denominata “Castello”. Si trattava di un largo tratto di terreno in aperta campagna dove sorgeva una costruzione in parte diroccata che, pare, fosse stata, nel medioevo, la dimora di un principe. Proprio in questa zona, don Antonio, il padre di Michele, aveva acquistato un villino con annesso un piccolo giardino, nel quale egli aveva trascorso gran parte del suo tempo prima di morire. Era un bel vedere di ortensie, ginestre, gerani, azalee, boncavilli, con edere che si arrampicavano su per i muri ed alberelli dal verde smeraldo al verde cupo. In estate una fantasmagoria di colori rallegrava gli occhi e confortava l’anima. Eppure, tutto questo, era come inesistente per Michele, che tirava dritto senza curarsi minimamente in alcun modo di quel giardino o di qualsiasi altra faccenda riguardante la casa, così che, alla morte di don Antonio, il giardino stesso andò in malora, e gli affari domestici gravarono esclusivamente sulle spalle della moglie superstite. Il giovane non aveva molti amici in paese e, spesso, la sera, dopo l’orario di chiusura, s’intratteneva nello studio per la definizione di pratiche in arretrato. Lasciava il locale che ormai era notte ed attraversava a piedi l’intero paese per inoltrarsi nella campagna dove era situata la sua casa. Prima di allontanarsi dalla strada maestra, era solito dissetarsi ad una fontanina dalla quale sgorgava un’acqua straordinariamente fredda e leggera.
Una sera, mentre beveva, ebbe la netta sensazione che qualcuno   dietro l’osservasse. Girò gli occhi per vedere di chi, o cosa, si trattasse e scorse un corvo, nero come la notte, che, appollaiato su una pietra, lo fissava. Non ebbe neanche il tempo di stupirsi, che l’animale, con un veloce battito di ali, volò via e scomparve nella campagna antistante. Michele s’inoltrò nel meleto dove sorgeva la sua casa, e, mentre camminava, avvertì chiaramente il labbro di una bocca invisibile che s’incollò al suo orecchio e, prima gli sussurrò parole incomprensibili, poi vi infilò dentro la lingua. Fu tale lo spavento che il giovane accelerò subito il passo, poi, d’improvviso, si mise a correre fino alla recinzione del suo giardino, dove giunse con il cuore in gola e la mente così in subbuglio, che dovette sostenersi alle lance di ferro per infilare la chiave nella toppa della porticina del cancello. Da quella sera Michele cominciò ad accusare fenomeni di “criptomnesia”: nella sua mente riaffioravano sempre più spesso frasi, canzoni o poesie ritenute da tempo dimenticate, o, mai apprese. Un giorno, nello studio, mentre conversava con un cliente, d’improvviso, si alzò e cominciò a declamare dei versi dell’”Orlando furioso”, nel punto in cui l’eroe comincia a dare i segni della sua imminente pazzia:
- “ E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo l’ispido ventre e tutto il petto e il tergo; e cominciò la gran follia, sì orrenda, che de la più non sarà mai ch’intenda.[1]”-
Così detto, tutto sudato, si alzò e, pallido come un morto, cominciò a pronunciare frasi in un linguaggio privo di senso, utilizzando quei fenomeni fondamentali del proprio idioma che hanno un codice molto ristretto, simile a quello dei bambini nelle prime fasi di vocalizzazione:
- Tu…mia…io…tu…-
- Cosa?- disse il cliente sbalordito.
- Io in tu…tu anco…-
- Si sente bene, signor Michele?- fece il cliente.
Michele, per tutta risposta, si slacciò la cintura dei pantaloni e se li lasciò scivolare giù. Il suo sguardo era perso nel vuoto; le sue pupille erano quasi vitree; gocce enormi di sudore gli colarono giù dalle tempie e gli rigarono le guance.
 

[1] Che non ci sarà mai nessuno che sentirà parlare di una pazzia più grande.
 

Cerca nel sito

Cerca per...

Sono con noi

Ci sono attualmente 5 utenti e 4344 visitatori collegati.

Utenti on-line

  • live4free
  • LaScapigliata
  • Lorenzo
  • Bowil
  • Fausto Raso