Avvertì il duro del bracciolo del divano sotto la tempia, avvertì la leggera infossatura lasciata dalla testa nell'imbottitura e s'accorse di essersi addormentato senza aver tempo di mettervi uno straccio di federa, ripiegata in tre come usava di solito.
Subito dopo ebbe memoria del gesto del braccio allungato, quando aveva chiuso il libro, per spegnere la lampada alogena da tavolo, nera, che alloggiava a terra dietro lo stesso bracciolo.
Allungò automaticamente il braccio, trovò l'interruttore e lo pigiò verso di sé per guardare cosa diavolo fosse impigliato come una pietra allo parte mediana della tibia.
Nulla. Niente che vi fosse attorcigliato o appoggiato contro. Nulla fino all'altro bracciolo.
Però, sulla parte anteriore, risaltava una cicatrice di qualche centimetro longitudinale all'osso, una cicatrice vecchia, quasi in via di guarigione che Vincente non aveva mai visto; né egli ricordava di essersi mai ferito, in quella posizione, di aver sbattuto anche inavvertitamente, di avere mai sentito dolore prima d'ora, in quella parte.
“ Che cazzo è successo?” Esclamò sottovoce facendo sibilare tra i denti il più lentamente che poteva le zeta. “Avrò sbattuto tornando dal bagno.”
Cercò di concentrarsi, ma non ricordava alcun dolore, “e poi è vecchia, 'sta cicatrice è di qualche giorno.”
La tempia e la mascella continuavano a dolergli e cominciò, seduto all'indiana sul divano, a massaggiarsele.
Quando si ritenne soddisfatto prese a massaggiarsi la tibia. Quindi passò e ripassò le punte delle dita anche sul polpaccio in corrispondenza dei punti anteriori.
Ma il dolore non scemò minimamente, né durante il massaggio né dopo quando provò di nuovo a stendersi appoggiando stavolta i piedi sul bracciolo di fondo.
Colto da un improvviso ripensamento si alzò, infilò le ciabatte da camera ed andò all'armadietto Ikea di legno chiaro in bagno, infilò la mano tra il coperchio e l'orlo di una delle scatole di cartoncino blu e ne trasse due federe fresche di bucato, le odorò e con quelle raggiunse di nuovo il divano.
Nel frattempo gli era passato completamente il sonno, così riaprì il libro appoggiato sul tavolino accanto; si mise prono, l'indolenzimento alla mascella se ne stava andando, e ricominciò a leggere cercando, per raccapezzarsi immediatamente senza doverlo sfogliare all'indietro, di trovare nella memoria almeno due o tre passaggi dei più salienti.
Ai primi due che gli vennero in mente s'accorse che era passato anche il dolore alla tempia. Allora allungò la mano destra verso il pacchetto delle sigarette e ne estrasse e accese una guardando dov'era posizionato precisamente il piccolo portacene bianco sullo stesso tavolino, e se vi potesse arrivare comodamente.
Non era la prima volta che durante la lettura gli cadessero libro e sigaretta dalle dita e s'addormentasse con la piantana accesa. Perciò da un anno e mezzo, cioè da quando se ne era accorto, pur cosciente che qualcosa di ulteriormente cancerogeno dovesse esserci in mezzo a quel tabacco, Vincente acquistava quelle particolari sigarette che come smetti di aspirarle si spengono.
Il libro che ora sta leggendo Vincente è “Il piccolo campo” di Erskine Caldwell. Ama i romamzieri americani tranne forse il più osannato: F.S. Fitzgerald. Lui, e con lui il suo “Il Grande Gatsby”.
Non ama riflettere troppo sul peccato e le cadute, Vincente.
La coscienza di questi lo rattristano, i pentimenti lo spengono quasi, gli rallentano il senso del sangue, bello gioioso, dirompente nelle arterie tale quale il fiume dell'inverno .
Un rifluire nelle vene gli sembra quasi, questo lento crogiolo nel pentirsi, un rifuggire dall'azione, estuario del fiume che ha terminato la sua corsa e si confonde, muore, perde l'identità e si trascina per correnti sempre meno limacciose, visibili. Sempre meno pure di quando disarcionavano argini e greti, strappavano barche e chiatte dai pontili, invadevano campi e li fecondavano lasciandoli gravidi di limi. Non per una sola volta, che ne serbassero memoria per le prossime, future inondazioni. Così che si ricordino che sono campi e che quello è il fiume. Che sospeso nelle acque c'è il sangue; il suo, pesante del fiume.
Vincente è ormai arrivato alla pagina dove Griselda sente penetrare sotto la pelle il turbamento della città, l'eccitazione delle fabbriche di cotone, della filaccia che s'insinua nei polmoni degli operai, uomini e donne di Scottsville, che gli massacra alveoli e labbra facendoli sanguinare, che li fa morire anzitempo.
Ha davanti a sé Will Thompson, il marito di Rosamond, sua cognata, che giura sarà lui a ridare la corrente ai macchinari, a risollevare le leve dei telai nella fabbrica chiusa da più di diciotto mesi, a farvi tornare dentro le ragazze che guardano, fuori dalle finestre, il cielo del colore dei loro occhi, gli uomini con il petto nudo e i calzoni kaki, che ridurrà a calci in filaccia di cotone la porta inchiodata dai padroni per costringere tutta quella gente a lavorare alle loro condizioni.
Sente la sua forza, la determinazione di quell'uomo. Sente, in Will Thompson, che quell'uomo ha, dentro di sé una decisione. Sente che quando quell'uomo la vorrà, lei sarà sua.
Vincente si accorse che si stava di nuovo addormentando. Che la sigaretta gli si era spenta tra l'indice e il medio, fece un orecchio all'angolo superiore della pagina, appoggiò libro e sigaretta sul tavolino, guardò di nuovo la cicatrice abbastanza vecchia per essersela fatta quella notte, stava nuovamente per imprecare poi ci ripensò.
“Cazzo, proprio Vincente dovevano chiamarmi.!”
Stavolta gli aveva risparmiato dei “coglioni”.
Allungò il braccio verso la base della lampada e ascoltò il cric dell'interruttore un po' malandato. Nel buio tornava a farsi sentire il dolore della tibia, come un pesto.
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