La voce anelante | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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La voce anelante

  (post segnalato dalla redazione)
 
Nei tempi andati molti credevano all’esistenza del “monaciello”; egli era il folletto domestico dispettoso e generoso, amato e temuto, allegro e vendicativo, che abitava le vecchie case di tufo del centro storico napoletano, dove si insediava e si sentiva in diritto di cacciare gli intrusi, facendo loro ogni scherzo, anche pesante, come: tirare via le coperte dal letto, far cadere l’intonaco dal soffitto, rubare le provviste in cucina.
            Il monacello di questa storia, però, non è né allegro, né dispettoso, in realtà il mistero intorno ad esso risale all’epoca di Alfonso d’Aragona.  Nel 1445 Caterina Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, s’innamorò di un garzone di panettiere chiamato Stefano Mariconda.  Tra i giovani nacque subito una grande passione, ma la loro unione non era di certo ben vista dal mercante che ambiva a ben altro partito per la figlia. Fu così che, assoldati due sicari, l’iniquo genitore fece uccidere Stefano che finì accoltellato in un buio vicoletto dei Vergini[1]a Napoli.  Caterina, che intanto era rimasta incinta, fu rinchiusa in un convento dove partorì un bel bambino. Il piccolo fu chiamato Stefano come il padre, ed alla sua nascita, non avendo le monache altro con cui coprirlo,  fu avvolto in una tonaca nera. Egli crebbe in convento tra le amorevoli cure della madre e di tutte le altre suore. Era un bel bambino vispo e biondo, vestito da monaco, e per questo chiamato da tutti “’O munaciello”.
            Ma il cieco odio del mercante valicò anche quelle sacre mura. Volendo nascondere per sempre agli occhi della gente “per bene” il frutto del peccato di Caterina, egli fece rapire il piccolo, che fu prima strangolato, e poi murato nella cantina di casa alla Vicaria[2].
 
 
 
“C’è una voce nella mia vita
che si avverte nel punto che muore,
voce stanca, voce smarrita,
come il tremito del batticuore:
voce di un’accorsa anelante,
che al povero petto s’afferra
per dir tante cose e poi tante,
ma piena ha la bocca di terra.”
 
Il professor Moretti leggeva con enfasi questa suggestiva lirica del Pascoli a Marco, suo attento alunno nel corso di una lezione di doposcuola. Erano in casa del ragazzo, chiusi nella sua stanza, seduti l’uno di fronte all’altro, ad una scrivania su un angolo della quale poggiava un computer ed intorno ad esso,  vi erano sparpagliati: libri, quaderni, floppy-disk e CD Rom rinchiusi in custodie di plastica dalle variopinte copertine.
Dopo la lettura, rimase un istante in silenzio, con lo sguardo ancora posato sulle pagine del libro, poi sospirò e cominciò a commentare:
- E’ poesia evocatrice di ricordi e passioni nelle quali fremono accenti di ansia, di rivolta e di vendetta, tutti placati ad uno ad uno dal mormorio di quella voce udita come in sogno, quasi sussurrata da un’anima invisibile, voce che ha tanta eloquenza da compiere il miracolo, dissipare la tempesta dell’ira e acquietare con l’eco che di essa perdura l’anima sconsolata del poeta.-
Marco che lo ascoltava a bocca aperta, trasse le sue conclusioni:
- In poche parole, professò, Pascoli si voleva ammazzare e la voce della mamma lo salvò?-
- In poche parole, si- Annuì Moretti.
In quell’istante bussarono alla porta. Era la madre del ragazzo che, dopo aver chiesto garbatamente permesso, entrò portando un vassoio con una tazzina di caffè ed un bicchiere d’acqua. Poggiò tutto sulla scrivania e disse:- Vi ho portato una tazza di caffè bello caldo, caldo, ed una buona notizia.-
- Le confesso che ne ho proprio bisogno…-
- Del caffè?-
- Anche, ma più della buona notizia.-
- Allora gliela dico subito! Le ho trovato casa, così potrà lasciare la pensione…-
- Casa?- chiese l’uomo, sorridendo con un certo imbarazzo:- Ma…come lei sa, io vivo da solo…Ho una stanzuccia in pensione giù al centro…Non sarei in grado di mantenere una casa…Poi, con quel che costa il fitto…-
- Tranquillo!- disse la donna stringendosi le mani al petto:- Sa una cosa? Non le costerà nulla. Si tratta di un grande e vetusto appartamento di proprietà di una mia amica, dove ci sono tantissime stanze, stanzini, ripostigli, che Dio sa quante, ma solo due camere sono realmente abitabili ed ammobiliate. Lo farà ristrutturare e lo venderà. Intanto ha bisogno di qualcuno che faccia da custode, per via del fatto che in quella casa ci sono degli affreschi e delle statue d’epoca delle quali già è stato fatto scempio.-
- Ma, non c’è un custode dell’intero palazzo?-
- Certo, ma quello non vede e non sente mai niente! Vive da tempo, lì, con una sorella mezza stramba, ed è pagato dalla mia amica e dagli altri proprietari, pochi per la verità, con un contributo della Sovrintendenza ai Beni Culturali.  Le dirò che l’appartamento è stato abitato fino a pochi giorni fa da un professore come lei, ma, per motivi che ignoro, costui è andato via frettolosamente.-.
Achille Moretti era originario di Campolattaro in provincia di Benevento, un paesino con poche casettine “dai tetti aguzzi”, adagiato su “verdi praticelli” attraversati da un “esiguo ruscello”; una sorta di “Rio Bo” di Aldo Palazzeschi dove giungono e nidificano le rondini in primavera intrecciando voli intorno agli antichi cipressi che vigilano “alti e schietti” sul borgo. Nella città sannita si era laureato a pieno merito in Filosofia, e durante il corso di laurea aveva conosciuto Elena, verso la quale vi era stato subito amore a prima vista. Entrambi fecero il concorso a cattedre per le scuole medie beneventane, ma la sola Elena riuscì ad accedere ai ruoli dell’insegnamento a tempo indeterminato. Achille trovò posto in un istituto scolastico privato, con l’intento di far punteggio per l’immissione nelle graduatorie per incarichi e supplenze nella scuola statale.  Dopo quattro anni di fidanzamento i due, nonostante la precaria posizione economica di lui, si sposarono. Ma le cose non andarono bene perché quel matrimonio, già contestato dalla famiglia della donna, finì miseramente dopo appena tre anni: Elena aveva un altro uomo.
Achille se ne andò di casa e tornò a Campolattaro nel “paterno ostello”. I genitori erano entrambi morti due anni prima, e la casa era abitata da una zia, Adelaide, sorella della madre, una zitella che non aveva trovato marito per il suo carattere acido e puntiglioso:
- Quella zoccola!- disse un giorno a tavola: - Se la intendeva con un collega! Bell’affare! Bella femmina da niente! Quando si trattò di fare il concorso, per preparare lei, non hai pensato a te. Mò, lei tiene il posto e il compare, e tu te ne sei venuto qua a farti sfottere, con la coda tra le gambe! Proprio ‘nu chiochiero[3] sei! Ma se quella zoccola si è messa con un altro, si vede che ha trovato uno più chiochiero di te! Che schifo! Che indecenza!-
Achille ascoltava senza sollevare la testa dal piatto, mangiando automaticamente della pastina in brodo. Poi, senza finire, depose il cucchiaio, si alzò ed andò ad adagiarsi sul letto.  Dalla sua camera si vedevano i campi sotto il sole d’aprile nel miracolo della primavera, dipinti in un chiasso di colori con fiori blu, rossi, celesti e viola. In lontananza i monti uscivano dalla bruma[4], peschi e mandorli novelli si adornavano con petali rosa e bianchi, il suono dell’acqua del ruscello era come un susseguirsi di tintinnii argentini.  D’un tratto, il giovane si distolse da questo incanto e quasi gridò: - Vendo la casa e i gioielli di mamma e me ne vado a Napoli!-
- La casa?-esclamò zia Adelaide comparendo sulla soglia:- E a me? A me non ci pensi? Dove vado io?-. Così vendette solo i gioielli e con la somma ricavata se ne andò nella grande metropoli partenopea, dove prese alloggio in una pensioncina situata in un vicoletto nei pressi di Piazza Garibaldi. Viveva in una piccola stanza di quattro metri per quattro con una finestra che affacciava sulla popolare via Torino. Riuscì presto a fare delle lezioni private a domicilio di italiano, storia e filosofia, e campava con quel poco che guadagnava. Pian piano, però, i soldi che aveva da parte finirono, ed Achille fu costretto ad accettare, quando gli capitavano, lavori saltuari di vario genere: fece il garzone in una macelleria, lo scaricatore in un grande magazzino, l’autista di una vecchia signora. Non riuscì a superare un  nuovo concorso a cattedre e cadde, allora, in una condizione di tristezza e sfiducia, accompagnate da irritabilità, incapacità di concentrarsi, da alterazione dell’alimentazione e del ciclo del sonno, insomma: in una vera e propria prostrazione. Allora cominciò a pensare al suicidio come estremo arbitrio di libertà, una valutazione lucida, quasi serena, anche se disperata.
Ma la scelta di Achille era solo l’effetto di una causa costituita dalla forma depressiva che lo aveva assalito: insonnia che raggiunse un’irrequietezza inconsolabile; rottura della capacità decisionale, che pervenne a livelli tali da farlo sentire in uno stato di assoluta estraneità rispetto a tutto; irritabilità, che facilmente diventava rabbia cieca, al solo pensiero dell’immaginata cattiveria di quanti lo circondavano. Cattiveria che egli costruiva meticolosamente nel suo senno ed associava ad azioni, a volte banali, casuali, innocenti, della gente che lo circondava, poca per la verità: l’anziano padrone della pensione, un altro svagato pensionato suo vicino di stanza, la vecchia signora che di tanto in tanto accompagnava.
Così cominciò a leggere dell’autolesionismo di Byron, della contestazione alle sue stesse debolezze di Cesare Pavese, della lenta, inesorabile discesa verso spaventosi deliri di E.A. Poe, del quale fece suo l’universo gotico e stregato, e col quale era accomunato in una sorta  di grande metafora degli angoli oscuri della psiche umana, delle contraddizioni, delle ambiguità della stessa condizione essenziale.  Il suo inconscio si insinuò a poco a poco nel reale, fino a fagocitarlo completamente. La sua irrefrenabile immaginazione visionaria non procedeva, tuttavia, senza controllo: la sosteneva un sapiente dominio d’insieme, una lucidità combinatoria eccezionale.
Una sera, Alfredo, il suo vicino di camera, appassionato di teatro, ed egli stesso attore filodrammatico, bussò alla sua porta. Era completamente ubriaco ed il lezzo acido del vino aveva già invaso buona parte del corridoio sul quale affacciavano le stanze.
- Pubblico, apri il tuo cuore al grande attore! – gridò, e Achille dall’interno:- Va via, Alfredo, vai a dormire e lasciami in pace.-
- Incompetente! Mica sai cosa ti perdi. Toh, ci ho qua un copione. Stai a sentire…-.
Aveva tra le mani delle pagine dattiloscritte, si appoggiò alla porta e cominciò a sfogliarle. Ad un certo punto si fermò e lesse:
- “Uomini e donne d’ogni ceto, età, professione, marinai, campagnoli, cittadini, tutti siamo inquilini del Signore, proprietario di due case. L’una, noi la vediamo, eccola qua. E sarebbe il Signore buon padrone a un modo, se tanta e tanta gente, avara e prepotente, non se ne fosse fatta casa propria, quand’essa dovrebbe invece essere casa comune. C’è chi ha granaio, dispensa, rimessa, e chi non ha né fune né tanto meno muro da piantarvi un chiodo per potersi impiccare…”-
La porta si aprì e dietro di essa, nell’ombra, comparve il volto corrucciato di Achille che chiese:
- Ma cosa dici?-
- Non sono io che dico, ma Pirandello. E’ il maestro che parla.- mostrò il copione:- Questo è “Lazzaro”, il mito dell’aldilà col quale lo scrittore cerca di superare e risolvere nella fede lo sgomento glaciale che di fronte alla morte afferra i suoi personaggi.
Achille guardò i fogli stropicciati che Alfredo stringeva tra le mani, poi li prese, quasi sottraendoli con forza, e disse:- Dai qua, voglio leggere…- e rinchiuse la porta.
In “Lazzaro” Pirandello affronta il problema dell’immortalità dell’anima. In Diego Spina, il protagonista, l’autore rappresenta emblematicamente il fideismo portato alle sue estreme conseguenze di negazione della vita e lo pone a confronto con il naturalismo pagano di Sara (la moglie) con il buon senso popolano di Deodata e di Cico (personaggi -  coro) e con l’ansiosa ricerca di una fede autentica di Lucio (il figlio seminarista). L’azione drammatica assume via via toni più forti fino a raggiungere nel terzo atto l’inatteso colpo di scena del miracolo. Diego perisce in un incidente stradale, ma la sua è una morte apparente; basta l’intervento del medico di casa con una provvidenziale puntura d’adrenalina a rimetterlo in vita. La “resurrezione” scatena in don Diego una tempesta. Il mito dell’aldilà, ragione della sua vita, era crollato. Il fatto di non aver incontrato Dio durante i sia pure brevi istanti di morte, aveva annientato la sua fede.
Achille lesse tutto di un fiato il copione, e rimase particolarmente colpito dalle parole di don Diego:- “Lo posso gridare a tutti: fallimento: io che lo so! O se è fede sincera come la mia, perdetela! perdetela!”- . Abbandonò il dattiloscritto su un tavolino e si recò dietro la finestra a guardare il via vai della gente, che con il suo buffo caracollare affollava i marciapiedi in basso e passava velocemente, tirando dritto. Ognuno aveva una meta precisa, qualcosa da fare, un luogo dove andare.
- Guardali!- sussurrò tra sé Achille – Sembrano come acqua di fiume che scorre veloce, tutta verso il mare, e nulla può fermarla! E’ come…come la nostra vita che scorre inesorabilmente verso l’ultimo giorno, l’ultima ora, l’ultimo istante…-.
Salì sul tavolino, calpestando il copione, legò una lunga sciarpa ad un gancio nel soffitto e se l’attorcigliò alla gola.
Alfredo proprio in quell’istante bussò di nuovo alla porta:
- Dì, avresti qualcosa da bere? Io mi sono bevuto tutto…pure il cervello…Ah,ah,ah… A proposito, mi ridaresti il copione? Lo hai letto, eh? Che ne pensi? Ti è piaciuto?-
La porta si aprì  per un istante, lasciando intravedere solo la mano di Achille che consegnò all’uomo le pagine. Questi, osservando che erano quasi tutte sgualcite e sporche, poggiandosi al muro nel corridoio, disse a se stesso:- L’ha letto!- Poi singhiozzò e, barcollando, andò via.
 
 
-…C’è, dunque bisogno di una persona che salvaguardi la casa dalla completa rovina. Io le ho parlato di lei…Ma, mi ascolta? – disse la madre di Marco. Dopo qualche attimo Moretti rispose:
- Ah, si, certo…mi scusi.-
Il giorno dopo si recò all’indirizzo datogli che era in via Tribunali, all’angolo con vico dei Panettieri. Si trattava, come la donna gli aveva già detto, di un antico palazzo, ridotto male dall’incuria dell’uomo e dall’usura del tempo, appartenuto a Sergianni Caracciolo[5] ,.
Appena entrato nel portone, si fermò davanti alla guardiola del portiere, un omino sui quarantacinque anni, basso e grassottello.
- Signò – disse costui:- questo è un palazzo antico assai. Pensate che qua dentro c’è stata pure la regina Giovanna. Ci veniva a fare i fatti suoi con uno dei suoi comparielli, tale Sergianni Caracciolo. A quell’epoca il palazzo era uno splendore! Vedete il cortile? Era pieno di cavalli e carrozze. Poi le cose andarono come andarono e Sergianni, caduto in disgrazia, perdette, come si dice, “Filippo e il panaro”[6]. Il palazzo diventò proprietà di un mercante, un fetentone che non guardava in faccia a nessuno, un certo Emanuele Frezza, che teneva tanti di quei soldi che si poteva permettere un piccolo esercito di scagnozzi a sua disposizione. Certo, lui la pensava come la pensava…e la pensava in un certo modo. Si racconta che, essendo la figlia rimasta incinta, aveva fatto ammazzare il piccolo nipote e ne aveva fatto seppellire il corpo in cantina. Si dice che qui compare il fantasma. Io non ho mai visto niente. Mia sorella, si…lei dice di aver visto lo spettro del vecchio don Emanuele che si aggirava  senza sosta per la casa, ma…vedete…mia sorella è un poco esaurita…non si può dare molto credito a quello che dice. E’ un poco, come dire? Signò, è una mezza pazza, però fa tutto quello che deve fare, eh! Altrochè! E’ un ciuccio di fatica! Ve la manderò tutti i giorni sopra per rassettare le due stanze che voi occupate, e non mi dovete niente, per carità! Sapete una cosa? Io in cantina ci sono sceso diverse volte, ma non ho mai veduto niente. Questo posto segreto dove è stato occultato il cadavere del bambino non è mai stato scoperto.-
Il portiere accompagnò Achille su per uno scalone centrale, oltre il cortile. Passando sotto un arco, salirono al primo piano, dove l’uomo infilò una pesante chiave in una porta ed aprì l’accesso all’appartamento.  Effettivamente la casa era enorme: tra grandi e piccole, contava ben tredici stanze, ma era in pessime condizioni: pavimenti divelti, calcinacci cadenti, vetri rotti, polvere a monti dappertutto. Girava a ferro di cavallo tutto intorno al cortile, dove affacciava con ben sei ampie balconate. Altre quattro balconate guardavano dall’alto vico dei Panettieri e vico San Petrillo. Non si contava il numero di finestre, le cui imposte erano quasi tutte sgangherate ed incolori. L’ala ovest era quella ammobiliata ed in condizioni di vivibilità, o meglio, solo parte di essa, esattamente una stanza ed una cucina. Attiguo alla stanza c’era anche un bagno, tutto l’appartamento ne era pieno: ne contava, infatti, ben cinque. Così come si conviene per ogni casa antica, il salone all’ingresso era enorme ed affacciava in un’attigua stanza, una sala leggermente più piccola, nella quale troneggiava una riproduzione della “Venere di Milo” con la particolarità che questa aveva braccia e testa. In verità, il suo volto più che il ritratto di una donna, sembrava quello di un giovane efebo in verdissima età. Da questa sala si accedeva ad un’altra, in un angolo della quale c’era un’altra statua: un’orrenda rappresentazione del “Dio Pan” nell’atto di suonare il suo stridente flauto. Quasi tutte le stanze avevano affreschi dipinti sui soffitti. Particolare era quello del salone d’ingresso: esso, sia pure devastato in gran parte dall’incuria e dal tempo,  rappresentava una cruenta scena di caccia alla volpe, cosa insolita nelle campagne del napoletano. Uno dei poveri animaletti era braccato da cani rabbiosi ai piedi di una quercia, mentre altri tre pendevano squartati da una trave portata a spalla da due battitori. Sullo sfondo, era in netta contrapposizione la beatitudine di un paesaggio collinare immerso nella nebbia mattutina.
La zona riservata al Moretti, se pur consisteva solo in una piccola parte della casa, era costituita da due stanze molto spaziose situate sul lato ovest: in una c’era una camera da letto in stile “Liberty”, con armadio laccato a quattro ante, letto a due piazze in ottone puro, rifatto da poco, con lenzuola e coperte  pulite, due comodini ed un comò di noce massiccio. In cucina, un fornello a gas poggiava su una vecchia fornace di mattoni refrattari; c’era un frigorifero, stile americano anni sessanta, ancora incredibilmente funzionante; un tavolo con quattro sedie ed una credenza di colore rosa e verde. Achille vi trovò dentro delle spezie; sale, olio e pane raffermo. Vi erano ancora tracce tangibili di qualcuno che doveva essersene andato da poco:tazzine sporche di caffè in lavandino, abiti smessi nell’armadio, cicche spente in una ceneriera su uno dei comodini, un paio di pantofole abbandonate sotto il letto, fogli con annotazioni lasciati un po’ dappertutto.
- Mia sorella vi ha rifatto il letto, poi la mando a fare un poco di pulizia generale.- disse il portiere.
Quasi automaticamente, Achille aprì un cassetto del comò e vi trovò un quadernetto. Lo dischiuse a caso su una pagina e vi lesse:-“ Questo essere mi perseguita dalla mattina alla sera, e non mi lascia in pace neanche la notte. Tutto comincia invariabilmente con una leggera emicrania, alla sera, che tende ad attenuarsi e a sparire dopo un lieve massaggio al collo e alla testa. Poi l’emicrania ritorna più forte di prima, ma, nonostante tutto, mi addormento. Il sonno è agitato, mi dibatto, gemo, respiro sempre più affannosamente; serro i pugni, mi viene la bava alla bocca e faccio sforzi disperati per svegliarmi, per sfuggire al terribile incubo che mi tormenta. Niente da fare. Il ritmo del respiro si accelera, i miei gesti sono sempre più scoordinati, cerco di aspirare l’aria, ma non mi riesce. Attanagliato dall’angoscia mi dibatto violentemente, piango e gemo finché, in un ultimo spasimo, riesco a svegliarmi e lo vedo: lui è lì, drappeggiato in un mantello rosso, che sembra navigare al di sopra del pavimento.”-
- Che significa?- chiese Achille.
- Devono essere cose scritte da chi ci stava di casa qui prima di voi. Se n’è andato quindici giorni fa. Che significa? Prima di rispondervi, vi faccio vedere una cosa…- Lo condusse in cucina, dove, proprio dietro la porta, c’era una grande cesta di vimini completamente ricolma di bottiglie vuote:- Ecco qua, - disse:- vedete? Quello era uno che beveva sempre. Si era rovinato il fegato a furia di bere alcolici. Era un uomo solo, un professore di filosofia. Non teneva amici, parenti, niente! A volte, in mezzo alla scale lo sentivo parlare da solo, diceva: “Devo sapere, devo scoprire…”. Una volta gli domandai: “Professò, me la togliete una curiosità? Ma che cosa? Che cosa dovete  sapere?” e lui:”Quello che c’è da sapere…anzi, io non so proprio niente.” E mi parlò di un certo Socrate che sapeva di non sapere niente. Un pazzo! Peggio di quella scellerata di mia sorella! Ve la mando, signò, ve la mando a pulire. Faccio togliere tutto: bottiglie, mozzoni di sigarette, pantofole, e pure questa schifezza di quadernetto che tenete in mano.
- No, questo lo tengo.-
- Lo volete tenere? Fate come volete, ma, vedete, chi lo ha scritto non teneva le rotelle a posto. Qui ci è stato poco, se n’è andato di corsa perché si era fissato che tra queste mura ci stava qualcuno o qualcosa che ce l’aveva con lui. Ma chi poi? Un fantasma? Può essere, questo è un palazzo vecchio e se ne raccontano di storie nei vicoli qua intorno. Ma io che ci vivo da sempre non ho veduto mai nulla…Mia sorella sì! E forse pure il professore che ci stava prima di voi…forse hanno veduto lo spirito dannato di don Emanuele, ma voi, signò, non vi fate suggestionare da queste mie chiacchiere, si tratta di due pazzi visionari.-
Achille considerò che, a conti fatti, anche se doveva prepararsi da solo da mangiare, per motivi strettamente economici, gli sarebbe convenuto cambiar casa. Così, dalla pensioncina alla stazione, se ne venne nella vetusta casa di via Tribunali, dove non ritrovò certo la voglia di vivere, di reagire, di sentirsi attaccato al proprio corpo, di riflettere sulle proprie azioni, così continuò a non comprendere l’eccesso della sua depressione, a non riconoscerne l’esagerazione. Qualcosa di positivo, però, era accaduto: il suo carattere mite e generoso gli aveva fatto guadagnare le simpatie del vicinato, in modo particolare di Assunta, la figlia di don Nicola il pizzaiolo che aveva bottega proprio di fronte al palazzo, dove egli era solito recarsi a mezzodì per desinare, quasi sempre, con pizza e contorni innaffiati da un buon bicchiere di vino bianco.
Assunta era quasi una ragazzina, aveva sedici anni, e serviva ai clienti le pizze che il padre, classico napoletano, ancor giovane, dai capelli ondulati ed impomatati, impastava, guarniva ed infornava con grande maestria. Di corporatura esile, occhi azzurri e capelli biondi, la ragazza, svolazzava per il locale tra i tavoli di marmo e ferro battuto, servendo “Margherite”, “Marinare”[7] e birre tutto il giorno. Si muoveva con velocità e grazia, entrando in confidenza con quanti, giovani e vecchi, frequentavano il locale.  Ma il suo occhio e la sua attenzione erano maggiormente desti quando sulla soglia compariva Achille. Era allora che il suo sguardo diveniva sfavillante, il suo andare più veloce, ma più incerto, il suo dire leggermente balbettante ed esitante: la ragazza era innamorata cotta. Il menù del giovane, non era, per la verità, molto vario: pizza e peperoni, o alici marinate, o zucchine alla scapece. A pranzo soleva sempre portare con sé qualche libro del quale leggeva alcune pagine tra una forchettata di peperoni all’insalata ed un’altra di “friarielli”[8]. La ragazza aveva preso l’abitudine di sedersi al suo tavolo, trascurando un po’ gli altri clienti e i richiami di don Nicola.
- Oggi che leggete di bello?- chiese un giorno.
- La “Repubblica” di Platone.-
- Il giornale?- fece la giovane, poggiando entrambi i gomiti sul tavolo.
- No, come vedi, questo è un libro. Si tratta di un dialogo utopistico in cui Platone…- s’avvide che la ragazza non sapeva di chi parlasse, e specificò:- …Un filosofo greco, indaga sulla giustizia.-
- Eh, allora è importante per ogni individuo.-
- Invero, fin dal principio si decide che, dato che è più facile vedere ogni cosa in grande che in piccolo, sarà meglio indagare cosa rende giusto uno Stato anziché indagare cosa rende giusto un individuo…-
- Allora si parla della giustezza di Stato?-
- Delle classi sociali, dell’educazione, finanche della guerra che, si dice, i ragazzi, prima di crescere, dovrebbero conoscere. Come se non bastasse la guerra che i giovani sono costretti ad affrontare ogni giorno nella ricerca di una posizione sociale, del lavoro, dei sentimenti. Una guerra senza quartiere, senza tregua, che spesso sono destinati a perdere. Ecco allora che la mente cede come debole postazione sotto il fuoco nemico.- Chinò il capo e rimase in silenzio.Anche Assunta rimase, per qualche attimo, taciturna ad osservarlo, poi si risolse:
- Com’era la pizza?-
- Ah, buona, come un giorno di sole!-.
Quella dolce figura di donna, così fresca, popolare, sbarazzina, ma allo stesso tempo attenta e comprensiva, aveva ridato ad Achille una leggera speranza. Era proprio come un raggio di sole che si era infiltrato nella buia tempesta del suo cuore. Ma, ahimè, il destino infame aveva scritto un finale drammatico per quella storia che ebbe termine ancor prima di cominciare. Assunta, investita da un motorino nel tratto antistante la pizzeria, batté col capo in terra, e, ricoverata in gravi condizioni in ospedale, morì tre giorni dopo senza aver ripreso conoscenza. La notte prima di finire un infermiere la sentì sussurrare nel delirio: - Cosa rende giusto un individuo? La morte!…La morte!-
Achille, colpito da quella tragedia, così come una fucilata annienta un uomo già irrimediabilmente ferito, non ebbe più la forza di reagire. Fatalmente, il pensiero di risolvere i suoi problemi con la “libera” scelta del suicidio, gli invase di nuovo la mente, ne schiavizzò la personalità, ne acuì il disfacimento spirituale. Ormai non gli importava più di niente e di nessuno, il suo aspetto divenne trasandato, non si faceva più la barba, non si tagliava i capelli, non si stirava le camicie, mangiava poco e male, e deperiva, mentre il suo sonno era sempre breve ed agitato. L’autosvalutazione e la perdita del sentimento della vita influirono sempre di più su tutte le sue attività, senza spiragli, senza speranza. Il treno delle sue vicende sembrava esser giunto, ormai, all’ultima fermata.
 
Una notte leggeva dei versi:
 
“ …C’è quell’ultima dolce stazioncina,
prima ch’io scenda
per dire di latino ogni mattina,
che mi rammenta quanto sia infelice
la mia esistenza,
che nulla vede più, e nulla dice,
che non dal companatico trascenda.”
 
 
Era tardi e, come al solito, non riusciva ad addormentarsi. Mentre leggeva fu distratto da un canto lontano: era la voce di una donna che intonava una ninna-nanna al suo bambino, che per qualche motivo si era svegliato di schianto:
 
“…E nonna, nonna, nonna, nonnarella…’o lupo s’è mangiato ‘a pecorella…”.
 
Quella nenia così lunga, quasi cruenta, lo distrasse dalla lettura; tese l’orecchio per continuare ad ascoltarla più attentamente:
 
Ninna, oh, ninna, oh, questo bimbo a chi lo do? Se lo do alla befana, se lo tiene una settimana; se lo do all’uomo nero, se lo tiene un anno intero…”.
 
La lagna, miracolosamente, con l’aiuto di una tisana che le aveva preparato la sorella del portiere, funzionò anche su di lui e lo fece addormentare, ma quel sonno fu devastato da un terribile incubo: sognò di esser sveglio, seduto in mezzo al suo grande letto a due piazze, la stanza era immersa nel buio profondo, eppure egli vedeva che le pareti lentamente si muovevano, e la camera si allargava a dismisura. D’un tratto, nell’oscurità, si materializzò una figura che dalla porta avanzò verso di lui. Si muoveva senza camminare, ritta e terribile, in una sequenza raccapricciante di avvicinamento ai piedi del letto: era un uomo ammantato di porpora, i suoi occhi erano profondi buchi neri, il suo volto non aveva sembianza, né bocca, eppure egli parlava e vedeva:- Rimani…- diceva sussurrando silenziosamente: - Rimani qui…-.
Al mattino il sole insultò gli occhi arrossati e stanchi di Achille che, lacrimando, risposero a quel bagliore rassicurante con un chiudersi e dischiudersi continuo, fino a quando egli non fu del tutto desto. Si guardò intorno come per cercare nella realtà del giorno quello che aveva sognato (o forse veduto nel dormiveglia?) durante la notte. Per qualche istante se ne stette a letto immerso nel calore e nel colore di quei raggi mattutini, nei quali sembrò cercare conforto per i suoi propositi di morte, poi si levò di scatto e si affacciò all’uscio della sua stanza. Tutta la grande casa era immersa nel silenzio e nella luce solare che proveniva dall’esterno. In quei fasci obliqui si agitavano, brillando in continuazione, miriadi di granelli di polvere in quel che pareva un universo infinitesimale. Egli, ancora in pigiama, fece qualcosa che non aveva mai fatto prima: cominciò a girare con circospezione per tutta la casa. Per caso giunse nella stanza del “Dio Pan” e si fermò ad osservare la terrificante, diabolica figura del signore dei boschi: era giovane e bello, ma il suo sguardo era malvagio; due corna piccole e spesse gli sbucavano dalla fluente capigliatura. Egli era nell’atto di suonare il suo magico flauto e sembrava danzare col  corpo osceno, a metà fra un uomo ed una bestia. Ad un tratto udì uno scricchiolio alle sue spalle, un passo sui calcinacci; si girò e, attraverso uno di quei raggi di sole, confuso tra il luccichio delle particelle di polvere che vi svolazzavano dentro, vide indistintamente un volto: era quello di un bambino. La visione durò solo un istante, tanto che egli credette che la stessa fosse frutto della sua fantasia, di una strana suggestione dovuta al misticismo pagano della statua, o forse era effetto della sua disperazione, di cercare e trovare un motivo per riafferrare il suo senso di vivere.
Nel primo pomeriggio, mentre usciva di casa per andare a lezione privata, fu fermato dal portiere sotto l’androne del palazzo:
- Avete saputo?-
- Cosa?-
- L’inquilino che c’era prima di voi, quel professore di filosofia mezzo pazzo, si è impiccato. Guardate, sta scritto sul giornale di oggi.- Gli consegnò un giornale che aveva in mano.
Il giovane diede un rapido sguardo al titolo, poi alzò la testa e non poté  fare a meno di notare che, all’interno della guardiola, la sorella del portiere ridacchiava e girava su se stessa, battendo le mani.
A sera, seduto al tavolo in cucina, lesse e rilesse l’articolo di cronaca. Il professor Santoro, docente di filosofia in pensione, per ignoti motivi, si era impiccato nella camera di un alberghetto dove   viveva dopo essersene andato da via Tribunali. Non aveva lasciato alcuno scritto per giustificare quel gesto. Non era ammogliato, non aveva famiglia, e gli inquirenti attribuirono l’evento alla solitudine della vittima. Rimase a fissare per parecchi minuti la foto dell’uomo pubblicata sul quotidiano; dalle case vicine si sentiva provenire la musica di sigla del telegiornale e le drammatiche cronache di guerra tra gli angloamericani e gli  iracheni di Saddam . In quel volto scavato, pallido e pavido, dallo sguardo triste e spento, egli  credette di rispecchiarsi. Vide se stesso, le sue paure, la sua mancanza di energia vitale, il suo paradossale dolore. Le notizie dei venti di guerra che provenivano confuse dall’esterno, si fondevano con la tempesta di sentimenti che infuriava nel suo animo, con la differenza che, mentre le prime erano seguite dai telespettatori con orribile ed assuefatto distacco, la seconda governava completamente il suo spirito con dittatoria risolutezza, senza lasciargli scampo. Si alzò, allora, per andare in camera da letto e prendere nel comodino quello scritto del Santoro che aveva trovato il giorno in cui era andato a vedere l’appartamento. Lo rilesse, e nella descrizione dell’uomo con il mantello rosso che sembrava navigare al di sopra del pavimento, riconobbe il protagonista del suo incubo notturno e gli ritornarono alla mente quelle parole: “ Rimani…rimani qui…” Gli sovvenne anche del viso del bambino, e non fu più sicuro se lo avesse visto veramente, o sognato.
Immerso in questi pensieri, se ne andò a letto senza cenare  bevve la solita tisana e si addormentò. Nel sonno si ripeté l’incubo della notte precedente: la camera si allargava deformandosi, mentre la figura, avvolta in un mantello di porpora, avanzava verso di lui ripetendo: “Rimani…rimani qui con noi…”.  Si svegliò di soprassalto nel cuore della notte e si alzò a sedere sul letto; si guardò intorno e gli parve di trovarsi al centro di una piazza, tanto era grande la sua stanza. La testa gli doleva tremendamente, ed una forte nausea gli attanagliava lo stomaco. Fuori si era scatenato un temporale ed il bagliore delle saette, ad intervalli brevissimi, attraverso balconi e finestre, invadeva la sua camera e  la casa tutta. In lontananza vide la misteriosa figura che si avvicinava, che, rischiarata dall’intermittenza dei lampi, sembrava muoversi come in una successione di fotogrammi cinematografici. Era alto e magro, e si copriva la testa con un qualcosa di stoffa.
- Dio, sono impazzito!- esclamò. Si alzò dal letto con la testa che gli girava come una trottola, uscì dalla stanza, attraversò il corridoio a tentoni, poi fu attratto dalle folgori di fuori, si avvicinò ad un balconee ne aprì le imposte. Dabbasso il silenzio era rotto solo dal vento e dal brontolio dei tuoni, non un passo, né il miagolio di un gatto o l’abbaiare di un cane…Si sarebbe buttato di sotto, se qualcuno non avesse violentemente bussato con il pugno alla sua porta. Quel battere, ripetuto in fretta più volte, sembrò destarlo da un altro sonno profondo, da un altro incubo. Era inzuppato di  sudore, pallido, quasi incosciente; a fatica riattraversò il corridoio ed aprì la porta: non c’era nessuno. Allora scese per le scale mantenendosi alla ringhiera e sull’ultima rampa incontrò il portiere che, in pigiama, saliva:
- Professò, che c’è?-
- Io…io…chi ha bussato alla mia porta?-
- Non lo so. Ho visto passare un ragazzino che veniva su…-
- Ma voi cosa fate sveglio a quest’ora?-
- Ah…non me ne parlate, sto cercando quella pazza di mia sorella che chi sa dove se n’è andata in giro…Ma voi che avete? Tenete una faccia gialla come quella di San Gennaro..-
- Oh, niente, niente…è passato.-
Fece per tornarsene su, ma dopo qualche scalino, si girò e chiese nuovamente al portiere:
- Un ragazzino, avete detto?-
- Un bambino, si. Non ho visto chi era…voi lo sapete, il palazzo è aperto anche di notte. Professò…è meglio che ce ne andiamo a letto tutti e due…questa non mi pare una bella notte. Voi, forse, tenete l’influenza…- e scendendo ripeteva:- E’ certamente l’influenza….-. Giunto alla fine delle scale alzò la testa e disse risolutamente: -E’ il clima di qua dentro che non vi fa bene…forse…forse ve ne dovete andare…è meglio che ve ne andate!-.
 
Achille risalì, rinchiuse lentamente la pesante porta e vi si appoggiò  contro, adagiandovi la fronte ancora sudata. D’improvviso sentì una presenza dietro di sé, come se qualcuno l’osservasse ed avesse compassione di lui. Si voltò di scatto, ma non c’era nessuno. Cominciò allora a girare per le ampie stanze alla ricerca di qualcosa che nemmeno sapeva cosa fosse. Nell’andare, attraversò il grande androne centrale, dove c’era la strana statua della “Venere”, la guardò, il suo incredibile volto era immensamente malinconico. Ebbe allora la sensazione che la sua mano destra indicasse l’ala est della grande casa, così vi si avviò. Era, questo tratto, l’esatto gemello del lato ovest dove lui alloggiava. Qui, però, lo stato di abbandono era totale: pareti scalcinate, pavimenti con piastrelle quasi interamente divelte, ciottoli sparsi un po’ dovunque. Quando giunse nella grande stanza simmetrica a quella del lato ovest, dalla balconata dalla quale stava per buttarsi giù, s’avvide che, accostato alla parete di sinistra, c’era un unico grande mobile. Si trattava di un armadio antichissimo, con le ante reticolate di ferro, quasi del tutto divelte dai supporti. Sotto di esso, appena si intravedeva una botola, il cui coperchio di marmo era di forma quadrata e laminato in ferro ai quattro lati. Ora il temporale era lontano, i fulmini non saettavano più bagliori all’interno della casa ed il rotolare dei tuoni era appena percepibile. Solo il vento animava di tanto in tanto le imposte dischiuse,  e portava via, giù in strada, cianfrusaglie varie raccolte un po’ dovunque.
Achille si inginocchiò per osservare bene la botola, e da sotto di essa udì distintamente la voce di un bambino che ripeteva: - Son' qui, son' qui…aiutami, ti prego…come io ho aiutato te…-. 
Il mattino dopo era confuso, la testa gli doleva ancora, il voltastomaco non lo aveva abbandonato un momento, non era sicuro se gli avvenimenti della notte se li avesse sognati o se fossero realmente accaduti. Non ebbe più dubbio sulla loro veridicità allorché per le scale incontrò, prima la sorella del portiere che, sghignazzando, gli chiese:- Avete dormito bene, stanotte? Si? E’ stata la tisana mia. Questa sera ve ne porterò un’altra: bevetela…bevetela tutta!-. Poi, sotto l’androne, fu fermato dal portiere  stesso, che gli disse:- Come state, professò? Questa notte mia sorella si aggirava per il palazzo. Tenevate una cera che veramente mi sembravate San Gennaro! –
- Avete poi saputo del bambino?- chiese Achille.
- Il bambino? Mi sono sbagliato professò: non c’era nessun bambino. Quale creatura volete che andasse in giro a quell’ora di notte?-
Quell’incredibile episodio, quell’incerta apparizione, quella voce appena udita, gli avevano concesso di ottenere un momentaneo riparo, una momentanea sospensione del suo disfacimento. Trascorse la mattinata senza che accadessero avvenimenti di particolare rilievo. Addirittura, a mezzodì, si recò a mangiare in una “Cucina casereccia” in via delle Zite, nelle vicinanze, dove una certa atmosfera di complicità, la cordialità della grassa taverniera, la simpatia popolana di alcuni avventori, servirono a rincuorarlo per un paio d’ore. Fu proprio in quell’allegra bettola che ascoltò una storia raccontata da uno dei clienti:
- I monacielli si sono stabiliti a Napoli da tempo immemorabile perché questa è la loro città preferita. Figuratevi che in tempi passati la loro figura era finanche legale: rappresentava una buona ragione per andarsene via di casa senza pagare l’affitto. Sapete dove sta un monaciello oggi? Proprio qui vicino, in un antico palazzo a via Tribunali, all’angolo del vico dei  Panettieri. Lì fu ucciso un bambino tanti secoli fa solo perché era il frutto di un peccato. A farlo uccidere, pensate, fu il nonno stesso. Il corpicino poi fu murato in una segreta delle cantine del palazzo. Lo spirito inquieto del bambino ci sta ancora e gira per tutta la casa durante la notte e al mattino presto: chiede onorata sepoltura, senza la quale non può trovare pace.-
Il racconto fu interrotto dall’arrivo della grassona che portò una fumante zuppiera stracolma di spaghetti al sugo, innevati con una dose massiccia di buon parmigiano. Quando glieli servirono, Achille, timidamente, infilò la forchetta nel piatto e lentamente avvolse i fili di pasta. Prima di portarli alla bocca, però, volle chiedere all’avventore che aveva narrato il fatto:
- Chi era esattamente questo bambino?-
- E’ una brutta storia, triste e drammatica che ho già raccontato tante volte. – rispose l’uomo che aveva già in bocca un gomitolo di spaghetti. Masticò e deglutì, poi riprese a raccontare:- Accadde nel 1400 o 1500. Una giovane, figlia di un ricco mercante, aveva avuto una relazione con un povero garzone. Il padre della ragazza, avendo per sua figlia ben altri propositi, fece uccidere il giovane e fece rinchiudere la ragazza in un monastero. Fatto sta che la donna era rimasta incinta e proprio nel convento diede alla luce un bel maschietto. Quando il mercante lo venne a sapere, fece rapire il bambino e lo fece uccidere. E questo è tale e quale quello che successe.-.
Achille abbozzò un sorriso di cortesia ed imboccò la forchettata di buona pasta al pomodoro fresco.
Trascorse il pomeriggio a fare lezioni private, e quando rincasò, grande fu lo sbalordimento nell’accorgersi che quattro libri che egli era certo fossero riposti in perfetto ordine in un vecchio mobile della sua camera, erano, invece, aperti, ognuno su una pagina diversa, sul tavolo della cucina: a pagina 10 il primo (una vecchia antologia intitolata “Sinfonia di voci”); a pagina 17 il secondo(“Il libro del paranormale” di Jimmy Guieu);; a pagina 4 il terzo (“Psicologia della superstizione” di Gustav Jahoda); ed a pagina 66 il quarto(“Storia della filosofia occidentale” di Bertrand Russell). Il suo sguardo si posò subito sull’antica antologia aperta su una pagina di una vecchia poesia di Renzo Pezzani[9]. Si sedette sul letto, accanto, sul comodino, trovò puntualmente la tisana che ogni sera gli preparava la sorella del portiere, bevve e lesse:
 
L’ANGELO
Dice il Signore all’Angelo:
“Corri da quel bambino
e restagli vicino.
Non lo lasciar giammai.”
“Signor, cosa gli dico
se mi chiede chi sono?”
“Digli: io sono un dono
di Dio. Sono l’amico.”
 
“E se piange che faccio?”
“Fa come il pastorello.
Quel bambino è un agnello
e tu lo prendi in braccio.
 
“E se gioca?” “Tu giochi.
I bambini innocenti
van felici di pochi
sassolini lucenti.”
 
“Se ha sonno, che ho da fare?
Sono così maldestro.”
“Mettilo in un canestro
e lo fai dondolare.”
 
Ed era già lontano
nel ciel, che si voltò
per chiedere più piano:
 
“E se ammala? Se muore?”
“Riportalo al Signore.”
 
 
Qualcuno, o qualcosa, aveva voluto lasciargli un messaggio. Ma chi? E perché? E qual’era il messaggio? Istintivamente andò a rivedere il numero della pagine alle quali erano aperti i libri: 10, 17, 4, 66. Cosa potevano mai significare quei numeri? Ricordò allora di aver letto proprio nel testo di Jahoda la storia cabalistica del 17. Questo numero nell’antica Roma si scriveva: XVII, orbene, anagrammando questi segni in VIXI, si otteneva  il ”perfetto” latino “vissi”. Analogamente cercò, allora, di dare una spiegazione anche agli altri numeri, cosicché dal 10 venne fuori “io”; dal 4: IV, cioè,tu; dal 66: VI VI. Per cui l’intera frase, ora composta, suonava in questo modo: “Io vissi, tu vivi”. La testa cominciava a dolergli di nuovo, a girargli, provò ancora quella nausea allo stomaco. Rinchiuse i libri, ma non riuscì a riporli nel mobile, poi attraversò la casa per recarsi nell’ala est, dove aveva scorto la botola. Appena giunse nel corridoio che portava allo stanzone simmetrico, si levò un vento fortissimo, le imposte di finestre e balconi cominciarono a sbattere ed a cadere a pezzi, la polvere si levava in  mulinelli trascinando con sé i ciottoli del pavimento che sfrecciavano via come proiettili, rimbalzando sui muri e sul soffitto. Le porte alle spalle di Achille si chiudevano violentemente con grave frastuono, il cui eco rimbombava in tutta la grande casa. Giunto alla botola, con molto affanno, cercò di spostare, ma invano, il pesante mobile. D’un tratto le ante, già precariamente in bilico, cedettero, e dal profondo della sua oscurità scaturì la figura ammantata di porpora, che, come già detto, senza occhi e bocca parlava e vedeva. La vista di Achille era annebbiata, sudava e  tremava tutto, la nausea si trasformò in vomito sfrenato, era esausto, sfinito. La figura uscì dall’anfratto e con tono di voce orrendo e grottesco, cominciò ad intonare una vecchia cantilena: - Sono l’angelo del Signore, sono amico del tuo cuore. Quando vegli e quando dormi, sempre, sempre sto con te…-. Il giovane, cadde di colpo all’indietro, e mentre l’oscena apparizione si avvicinava sempre di più, sentì la stessa cantilena provenire da sotto la botola. Questa volta, però, la voce era pacata, il ritmo dolce e modulato, proprio della delicatezza di un bambino:- Sono l’angelo del Signore, sono amico del tuo cuore. Quando vegli e quando dormi, sempre, sempre sto con te…-. La figura si fermò, sembrò esterrefatta, poi indietreggiò e scomparve nel buio del grande armadio.
- Professò…professò…- suonò la voce del portiere:- Ma che fate là per terra? Dove vi siete addormentato ieri sera?- Era giorno pieno, quando Achille, udendo queste parole, si svegliò, ritrovandosi raggomitolato tra la polvere e i ciottoli, sanguinante e spossato.
- Che vi è successo?- chiese il custode.
- Non…non lo so…- rispose il giovane, stropicciandosi gli occhi e infilandosi le mani tra i capelli.
- E’ la casa!   Non vi vuole la casa! La cosa migliore sarebbe andarsene. Professò, a conti fatti, voi è meglio che ve ne andate. Ci sta qualcosa qui che vi respinge.-
- Non lo so…-
- Forse…forse è il mercante. Andava vestito con un mantello di porpora e un basco largo in testa, un copricapo dell’epoca sua. Professò, in verità, quando voi veniste ad abitare qua, vi ho detto di non aver mai visto niente: non è vero, lo dissi per non spaventarvi, per non suggestionarvi. La realtà è che qua lo spirito malvagio compare e come! E può far male! Visto quello che è successo all’inquilino prima di voi? Se n’è dovuto andare, poi si è impiccato, perché sicuramente perseguitato dalle forze malefiche. Ma adesso non ci pensate. Vi ero venuto a dire se oggi volete scendere a pranzare da noi. E’ il compleanno di quella scellerata di mia sorella, ne fa trentanove, e siccome noi siamo soli e voi siete solo…Ah, ho trovato la porta aperta, come se l’avesse spalancata il vento. Forse, involontariamente non l’avete chiusa bene, e siccome stanotte c’è stato un ventaccio…-
All’ora di pranzo, puntuale, si presentò in casa del portiere. Vi si accedeva direttamente dalla guardiola, Era un seminterrato di due stanze più bagno e cucinino. La donna aveva preparato da mangiare e quando si sedettero a tavola non fece altro che guardare Achille e sghignazzare:
- E’ toccata, professò. – disse il portiere: - Gli antichi pensavano che i pazzi fossero in contatto con gli dei, è vero?-
- Si, credevano che essi comunicassero con gli uomini attraverso i folli.-
- Mia sorella dice che lei comunica con i morti…-
La donna si alzò dal tavolo, sollevò le braccia in alto e gridò: - Con i bambini, con i bambini!-
- I morti le dicono che ve ne dovete andare, professò…- fece il portiere: - Non vi vogliono…-
La sera, il giovane, seppur sconcertato dal mezzo pomeriggio trascorso in casa dei due strani ospiti, cominciò a rovistare per l’intera casa alla ricerca di qualcosa che neppure sapeva bene cosa fosse. Nel girovagare, finì nel lato nord, dove, in una stanza cieca, c’erano un altro bagno, impraticabile, ed un ripostiglio, il cui muro divisorio era crollato di modo che i due ambienti componevano ora involontariamente un unico lungo stanzino. In fondo al ripostiglio c’era un mobiletto di mogano, tutto malandato, con macchie di muffa ed intaccature di tarli sparse un po’ dappertutto. In uno dei cassetti trovò un altro scritto del vecchio Santoro, si sedette in terra e lesse:
 
“La sorella del portiere mi porta la tisana tutte le sere. Quell’intruglio mi aiuta a dormire il primo sonno, a non pensare, ma  è tutto inutile: dopo poche ore mi sveglio e resto ossessionato da quanto è accaduto in questa casa: il nonno snaturato fece uccidere il nipote per salvaguardare l’onorabilità del suo casato; prezzolò quattro assassini per rapire ed eliminare quella creatura. I bastardi tornarono di notte dal convento e bussarono nell’oscurità alla grande porta. Ne odo ancora i tocchi. Fu il mercante ad aprire ed indicare loro la via delle cantine, dove l’infante fu strangolato e murato in un anfratto. Ma, fatto orrendo, non era ancora morto! Fu sepolto vivo! Se ne sentirono i lamenti per diversi giorni. Quella voce io la sento ancora oggi, quasi tutte le notti: essa mi chiede, mi supplica di aiutarlo a trovare la pace. Avevo anche cominciato a fare delle ricerche ma  non ho avuto la forza  né il modo di portarle a termine perché lo spettro del mercante mi perseguita, mi ordina di andarmene di qua.”
 
Accartocciò il foglio tra le mani e poggiò la testa sul bordo della vecchia e sgangherata tazza che troneggiava da sola, senza tubi di scarico, nel gabinetto. Udì ancora quella nenia della madre che tentava di addormentare il suo bambino: - Ninna oh, ninna oh, questo bimbo a chi lo do? Se lo do all’uomo nero se lo tiene un anno intero…-. Quella voce ora si avvicinava, non proveniva più dall’esterno, ma dal fondo di uno dei corridoi: da limpida, cristallina e suadente, divenne roca, minacciosa e gracchiante, e ripeteva: - Questo bimbo a chi lo do?…-. Allora si alzò in piedi e prese una decisione: si armò con un ferro trovato in cucina, corse nell’altra ala della casa, nel mentre la testa cominciò a girargli, prese a barcollare, la vista gli si annebbiò, non riusciva a respirare bene. Nonostante tutto,  raccolse in uno sforzo supremo tutte le proprie forze, spostò il pesante mobile e sollevò il coperchio della botola. Accese un fiammifero e rischiarò una scala di pietra lunga e stretta, che scendeva a chiocciola in un budello di cemento. Erano decine gli scalini che, smussati e dirupati, si succedevano l’uno dietro l’altro, fino a giungere nel sottopiano cantinale. Accendendo continuamente altri fiammiferi, per poter guidare i suoi passi, il giovane raggiunse un lungo corridoio, sul quale affacciavano due porte che davano entrambe accesso allo stesso unico grande vano. Erano entrambe rinserrate con catenacci, che per la loro vetustà non rappresentarono un problema. Nonostante Achille fosse ormai allo stremo delle forze, con una sola spallata, scardinò la prima di esse ed entrò. Il vano sotterraneo aveva  forma pentagonale. Notò subito che una delle pareti era stata rifatta di recente, e battendovi sopra i pugni s’avvide che essa, senza ombra di dubbio, era cava. Con il ferro prese, allora, a percuotere il muro, fino a quando, questo, cedendo, scoprì l’esistenza di un tetro anfratto nel quale giacevano un antico scheletro ed un corpo incartapecorito appartenuto a qualcuno deceduto in epoca recente. Si trattava di due bambini morti in tempi molto diversi: quello più recente era addirittura un neonato. Fu allora che Achille udì la voce del custode dietro di sé:
- Ma chi siete voi, professò?  Il tenente Colombo? O chi?-
Il giovane si girò di scatto e vide che l’uomo era armato di pistola: - Sono…sono due i bambini…- balbettò.
- Quello antico è il nipote del vecchio mercante…quell’altro è figlio a mia sorella. Vedete come spesso si ripete la storia? Quel marmocchio là era il frutto della colpa di Caterina Frezza, la figlia di don Emanuele. Quell’altro era mio nipote…ed anche mio figlio. Quella scellerata di mia sorella, Dio la possa dannare, rimase incinta due anni fa.   Riuscimmo a nascondere la gravidanza fino a quando non partorì da sola in casa, come una cagna. Mi trovai la creatura così all’improvviso. Che dovevo fare?  Che cosa avrebbe detto la gente? Mi pareva di sentirli tutti: “La sorella scema del portiere a via Tribunali ha avuto un figlio dal fratello!” Professò, la gente con le sue chiacchiere ti uccide! Così ci pensai io a rimediare: sfondai il muro dove c’era il monacello, gli diedi compagnia e poi rifeci la parete.
- E avete sotterrato vivo anche quest’altro bambino?- chiese Achille.
- E che dovevo fare? – rispose il portiere - Mi dovevo macchiare del sangue di mio figlio e nipote?  Voi, mò, avete scoperto tutto, ma non lo direte a nessuno, perché, vedete, in quello che vi siete mangiato oggi a casa mia, c’era veleno per topi. Visto che non ve ne siete voluto andare, vuol dire che rimarrete qua a fare compagnia ai due angioletti…avete pure riaperto la tomba…-
D’un tratto sulla soglia comparve la figura ammantata di porpora che pian piano si tolse il copricapo di stoffa ed un velo bianco che le appiattiva e le copriva il volto: era la sorella del portiere che prima cominciò a sghignazzare poi a ripetere:- Adesso rimani pure tu qui…rimani qui…-
- Vedete, professò, abbiamo cercato di convincervi ad andarvene con il giochetto dell’apparizione del vecchio Frezza…Un giochetto che voi non potevate scoprire perché, quasi ogni sera, eravate drogato dalla tisana di mia sorella. E’ lo stesso gioco che abbiamo fatto con la buonanima di Santoro, che ha avuto la bella idea di andare ad ammazzarsi altrove, ma voi non ve ne siete andato e avete visto quello che non dovevate vedere-.  Improvvisamente si levò un vento tanto violento da sollevare nugoli di polvere che andarono ad accecare il portiere, una forza soprannaturale inchiodò la donna con le spalle alla porta e fece cadere Achille in terra. All’interno dell’anfratto si coagulò via via un’essenza luminosa che, vorticando su se stessa, s’ingrandì sempre di più fino a prendere le sembianze di un bambino. Era una figura di colore azzurro vivo, vestita con un saio monacale che gli stava largo e lungo, il cappuccio buttato all’indietro lasciava scoperto il capo, ed il viso era di una dolcezza infinita:
- E’ stato breve il mio viaggio – suonò cristallina la sua voce:- Ho atteso chi credevo mi amasse, nel freddo e nella nebbia di un convento lontano, e quando egli giunse, in un vespro settembrino, ammantato di porpora, tra vermiglie bacche, non fu il suo cuore a balenare, ma le pronte mani dei suoi sgherri, che qui mi lasciarono, vivo e sepolto, a piangere fino alla morte. Ed ancora piango per i giorni che non ho vissuto.-  Poi disse ad Achille:- Tu, invece, che puoi vivere, vuoi tornare alle origini prima del tempo. Io avrei sopportato tutto pur di rimandare, ma non mi fu concessa scelta.- La figura ridivenne informe e la luce spettrale riprese a vorticare. Fu allora che il misterioso vento aumentò la sua intensità provocando, prima il distacco di grossi calcinacci dal soffitto, poi l’intero crollo dello stesso che andò a seppellire il portiere e la sorella, risparmiando miracolosamente Achille, che a tentoni riuscì a portarsi fuori dallo scantinato prima che questo si accartocciasse su se stesso con gravi conseguenze per la stabilità dell’intero palazzo.
Il giovane si ristabilì completamente dall’avvelenamento, ed oggi egli è un uomo di mezza età che vive felice a Grosseto, dove ha vinto un concorso a cattedre ed insegna Filosofia. Si è sposato ed è padre di un bellissimo bambino che a Carnevale, chissà perché, veste da monacello. Ogni tanto, la sera, esce in giardino a guardare le stelle, e, tra il breve gracchiare delle ranelle nei campi, gli pare di risentire quella voce anelante “Che al povero petto si afferra per dir tante cose e poi tante…”


[1] Zona situata a sud del quartiere Sanità.
[2] E’ tutta l’area che si estende intorno ai Tribunali di Napoli.
[3] In dialetto: uno scemo.
[4] La nebbia invernale.
[5] Caracciolo Giovanni (morto nel 1431) detto Sergianni, favorito e gran Siniscalco di Giovanna II^.     
[6] Detto napoletano per dire di qualcuno che ha perso tutto.
[7] Tipiche pizze napoletane: la prima con pomodoro e mozzarella; la seconda con aglio, origano ed acciughe.
[8] Broccoletti fritti.
[9] Delicato poeta, giornalista e narratore, nato a Parma nel 1898 e morto a Gassino Torinese nel 1951.
(dalla mia raccolta di storie di fantasmi "Ad occhi aperti")

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