La ragazzina mi guarda inclinando la testa. «Frank chi?»
Già, mi dimentico sempre gli anni che ho. Lei non può conoscerlo, Frank Capra. «Lascia stare, è troppo complicato...»
«Ti piace proprio, questo 'è troppo complicato', vero? Sarà la sesta volta che me lo dici. E ci conosciamo solo da un paio d'ore...»
Non solo ha la stessa faccia di sua madre - e quindi, sia detto per inciso, la stessa mia - ma anche la sua ironia caustica, temperata dal sorriso luminoso.
Non mi era bastato, quel sorriso. Eravamo ai ferri corti, non ricordo nemmeno più perché, e lei se ne era uscita con una delle sue rispostacce. Così le avevo detto, sei maggiorenne, vattene se qui a casa non ti piace. E Flaminia se ne era andata. Così, senza aggiungere altro. Aveva voltato le spalle e non era più tornata. Solo una sporadica cartolina ogni tanto, per farci sapere che era viva.
Mia moglie Alessandra non me l'aveva mai perdonato. Era rimasta con me, sì, ma il sordo rancore che nutriva nei miei confronti per aver spinto la sua bambina ad andarsene si percepiva in ogni gesto. O forse erano i miei sensi di colpa a farmi dire questo. Non lo so.
Flaminia non era venuta nemmeno al suo funerale, sedici anni fa. Però doveva averlo saputo, di sua madre. Da quando era morta, aveva smesso del tutto di scrivermi. Al punto che, complice anche quella certa confusione sul passato che a volte provoca la vecchiaia, certe volte pensavo di essermela sognata, Flaminia. Di non averla mai avuta, una figlia, solo desiderata. E mi chiedevo il perché di una fantasia che di quella bambina vagheggiata ne prevedesse la fuga, l'assenza. Tanto valeva sognarne una presente e affettuosa, mi dicevo.
Quando avevo visto la ragazzina, mi era preso un accidente. Era identica a Flaminia, un po' più piccola di quando se ne era andata, ma non poi molto. Mi ero avvicinato con cautela, quasi con paura. L'avevo toccata su una spalla, più per sincerarmi che fosse vera che per attirare la sua attenzione. «Scusami, ma tu sei identica a mia figlia Flaminia...» «Mia madre si chiama Flaminia», aveva risposto e così era venuta fuori tutta la storia.
O almeno, quello che avevo ritenuto di poter raccontare ad una ragazzina di sedici anni. Da quasi altrettanti, non parlavo così a lungo con un essere umano.
Sono stanco, adesso. Ce ne stiamo sulla panchina del centro commerciale, in mezzo al frastuono natalizio. Folla, musica, bambini urlanti, carrelli, adolescenti in gruppi vocianti. Tutto mi gira intorno come un turbine, aumentando la mia confusione.
«Cosa vuole fare adesso, signor... beh, suppongo di doverla chiamare nonno, vero?»
«Fare? Cosa vuoi fare, ragazzina?»
«Potremmo andare a casa mia, così incontreresti mia madre. Tua figlia.»
«Lei non vorrà. Se avesse voluto rivedermi, mi avrebbe cercato. Non ho mai cambiato indirizzo, io, né numero di telefono.»
«Magari è troppo orgogliosa per cercarti. Però se vi incontraste...»
«Ma no, ragazzina. La vita non è un film. I rapporti tra le persone sono complicati.»
«Rieccoci con questo 'complicati'. Senti, io devo tornare. Se vuoi vieni con me, però deciditi.»
«Non usare questo tono con me, ragazzina! A proposito... com'è che ti chiami?»
«Mi chiamo Andrea. E non fare quella faccia. Mio padre è tedesco, in Germania Andrea è un nome femminile!»
Già, lo so. Ma il fatto è che Andrea è anche il mio nome. Flaminia ha chiamato sua figlia come me.
Davvero la vita è meravigliosa (*), penso, seguendo mia nipote verso casa.
(*)La vita è meravigliosa (It's a Wonderful Life) è un film del 1946 diretto da Frank Capra.
- Blog di Franca Figliolini
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