La donna che danzava tra le foglie | Prosa e racconti | Silvia Leuzzi | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

Login/Registrati

To prevent automated spam submissions leave this field empty.

Commenti

Sostieni il sito

iscrizioni
 
 

Nuovi Autori

  • laprincipessascalza
  • Peppo
  • davide marchese
  • Pio Veforte
  • Gloria Fiorani

La donna che danzava tra le foglie

 

Non c'era spazio per i suoi lunghi capelli, non c'era spazio per il suo sorriso. Questo tempo bucato dal tintinnare delle monete pesanti, non offriva uno spazio vivibile.

Non c'era mai stato un tempo per lei, quell'elemento strano che la natura ha prodotto solo per deliziare l'altro essere di sesso opposto. Doveva esistere perchè portava nella sua struttura morfologica gli strumenti che generano la vita. Aveva l'uovo di colombo, il punto più alto su cui correre, per arrivare alla vetta dell'esistenza.

Un'insana volontà di possesso, di specie, di razza l'ha incatenata ad un ruolo schiacciante. Una rassegnazione alla perdita della propria personalità. Un senso di non appartenenza, di solitudine, di emarginazione millenaria ha costruito le sue cellule e un'educazione, studiata per lo scopo voluto, non le ha permesso di esprimersi, di contare, di pensare.

I suoi lunghi capelli biondi volteggiavano nell'aria, il viso allungato e proteso nel vento si allineava con la figura filiforme del suo corpo. Tutta la sua persona sembrava ondeggiare, come foglie su un albero tenero.

Quella era la sua realtà, la terra, il bosco con i suoi colori morbidi l'inverno e squillanti l'estate.

Il mondo, con le sue inquietudini, la lasciava indifferente oramai. Le lacrime, che aveva versato su quel letto, erano evaporate e il dolore si andava dissolvendo in quel verde primaverile.

Aveva abbandonato tutto e tutti, era andata a vivere in una casupoletta diroccata e giorno dopo giorno l'aveva aggiustata. Era il suo nido, perchè lei si sentiva più simile ad un uccello. E come un uccello fuggiva paurosa ad ogni minimo rumore.

Al paese si parlava di lei, tutti la conoscevano, tutti la cercavano per le sue doti di guaritrice ma nessuno cercava di regalarle amore, la paura per l'ignoto, la pazzia erano più forte dell'umanità falsamente professata.

Per molti anni nessuno la disturbò e lei continuò a vivere delle sue erbe e dei suoi semi. La si poteva scorgere, da un'altura appena fuori paese, mentre girava danzando tra le foglie.

Il fruscio dei suoi abiti di stracci intrecciati si poteva udire, quando il vento era generoso.

Era per tutti la strega del bosco, la regina della selva che parlava con gli animali, unici compagni della sua esistenza.

Anastasia, il suo nome, era pronunciato a mezza bocca dagli uomini e con sprezzo dalle donne.

Era generosa Anastasia, fragile e sfuggente, si concedeva per il piacere di volare con la mente, senza pudori di falsa morale. Perchè, al pari delle erbe, che generose crescevano nei prati per il nostro benessere, Anastasia conosceva l'essenza del sesso, come essenza di vita. Non costruiva storie il suo cervello ma raccoglieva quel che il bosco poteva offrire.

Tutti i compaesani conoscevano Anastasia, era la donna che danzava tra le foglie, che loro avvicinavano con il silenzio del cacciatore. Era la preda prediletta di quelle mattine in cui non volava neppure un passero. Correva Anastasia, deliziata dal vento tra i capelli, correva sapendo che quell'ombra massiccia, eccitata dalla corsa e dal suo corpo, l'avrebbe di lì a poco raggiunta. Così era e quel manto d'erba fine e morbida accoglieva quelle carni ansimanti. Anastasia però rimaneva lì, sola, sdraiata con le vesti ancora scomposte, come i suoi capelli. Il respiro che si era agitato, come una bufera di vento improvvisa, ora si andava dolcemente placando, una bonaccia interiore. Per questo non cacciava mai nessuno Anastasia, per questo non ringhiava, sapeva che con un sorriso avrebbe guadagnato un momento di eternità.

Una peste improvvisa colpì la popolazione del piccolo paesello. Uomini, donne ma soprattutto bambini si ammalavano e da un giorno all'altro e morivano. La campana della chiesa oramai non produceva altro suono che quel din din din preludio della morte.

Anastasia non temeva la peste perchè la ignorava. Viveva nella sua dimensione di donna dei boschi, non sapeva che la paura della morte imminente, stava diffondendo una diceria che le sarebbe costata cara.

Tutti conoscevano la strega Anastasia, tutti conoscevano la sua generosità ma le donne, che tanto in odio avevano questa loro simile così dissimile, questa identità priva di senso religioso, riuscirono, aiutate dal parroco, a creare la leggenda.

Giorno dopo giorno si diffuse come il contagio e per Anastasia i giorni del sorriso erano contati. Non c'erano prove evidenti della sua colpevolezza, solo il suo essere evanescente, il suo concedersi senza ricompensa, la sua conoscenza delle erbe potevano essere imputati come atti di stregoneria.

C'era però una colpa nascosta nel suo essere donna, nel suo essere libera, nel suo concedersi come

" una cagna " dicevano le donnette avvolte nei loro neri mantelli, intrisi di ipocrisia e malvagità.

Quando Anastasia si avventurava alla ricerca di un pò di cibo, nelle strette strade del paesino, quei nasi adunchi nascosti da veli, di araba memoria, masturbavano la loro mente repressa nell'osservare quel volto sereno e appagato, che contrastava con i loro lineamenti irrigiditi dalle repressioni religiose e morali a cui sottoponevano il loro povero corpo.

Un odio sempre più acceso serpeggiò tra i paesani. Pochi ormai erano quelli che si avventuravano fino alla sua casupola. Una paura irrazionale si era impadronita di quegli amanti ignoti e gentili che Anastasia incontrava nei boschi. Gli uomini verdi, li chiamava lei, perchè erano per lo più cacciatori.

 

Il sogno di verde sconfinato e azzurro venato si spezzò una mattina di fine estate.

Anastasia sedeva sotto la sua vecchia amica quercia, stava setacciando le erbe colte sul far dell'alba, le avrebbe dovute mettere ad essiccare ma un gran tramestio di foglie, stropicciate da tanti piedi, la distolse.

Non fece in tempo ad emettere suoni che tante mani l'afferrarono e come invasati in una corsa folle si diressero sulla cima del dirupo.

Una volta in cima si disposero in un cerchio scomposto, dettato soprattutto dalla curiosità morbosa di vedere il magnifico corpo della strega sfracellarsi lungo le rocce. Una luce di perversa gioia irradiavano gli occhi delle represse donne abbrutite e incattivite del paese.

 

Finiva rotolando senza una difesa

Finiva senza un rantolo

Finiva con gli occhi rivolti a quel cielo venato e sanguinante di nuvole grigie, che pietose le regalarono una pioggia per dilavare il sangue da quelle carni morbide.

 

 

 

Cerca nel sito

Cerca per...

Sono con noi

Ci sono attualmente 0 utenti e 2900 visitatori collegati.