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Profumo

La morte si assomiglia. Volevo dirlo, perché ci ha qualcosa di segnato, di rintracciabile che, come per i segugi un itinerario di solo olfatto, adduce fatalmente alla pista che inchioda la preda. Infatti la sua preda giace là, statuaria, congelata, oltremondana, come tutte le altre che ha sempre avviluppato nella sua rete. La morte con la sua faccia che fagocita tutte le altre; la morte che assembla tutti i plurali nella sua arcana, nella sua molle, nella sua sabbatica singolarità. La morte in cui sprofondano le sembianze, e le glorie postume si coagulano in un horror vacui secco, arido, anonimo, ove tutto è uno, ma questi è morto… Dedicai a mio padre, che si accomiatava dalla pena terrestre un quarto di secolo fa, una lapide grafica con su scritto: A chi visse senza fama. Perché la fama è una fame di vento e la morte è calma piatta sulla faccia del mondo.
La morte si espande come un profumo, come un sapore. Essa fumiga in stanze sfigurate, diffondendo il suo fragrante dominio che lista a nero il visibile e rende cieco il tuo sentimento che annaspa nel buio, cercando oltre la morte le tracce necessarie della vita sgominata e offesa ch’essa ha inghiottito nel suo nero aroma. Sa di asfalto, di bitume. Sì, la morte è un nero catrame liquido, che scende ribollente sulla terra, intrufolandosi nella tua gola col suo spregevole languore, che t’impregna e t’appesta e non sai come spurgare.
Così, quando il profumo della morte comincia il suo lento vagabondaggio fra le mura che ospitarono il suo ospite, la senti e la riconosci, perché si rassomiglia. E ritrovi nel tiepido impasto di quella molle fragranza i volti e gli affetti che dentro quello stesso odore, una volta, s’imbarcarono verso l’ignoto.
E non venitemi a dire che l’importanza di certe morti le im-mortala, appunto, perché c’è l’effetto-somiglianza che rimugina eroi e codardi nel medesimo tritacarne, da cui risorge sempre il medesimo simulacro, quella specie di hamburger avariato che sprigiona effluvi di vecchiume e di cascami, quel senso di mistero lurido, immondo, graveolente, che ti cade addosso come tende spossate dai tarli e aggredisce i tuoi sensi coi suoi ectoplasmi a mezzo tra il liquido e l’onirico…
E poi l’affetto, l’aver voluto bene, l’icona stravagante di amore combaciata su quella putrescente di morte. Un bacio che risucchia le tue labbra dall’abisso e vi poggia sopra il sapore apocalittico dell’aldilà.
Un sapore di streghe e di inferni cui non si può credere, ma cui nondimeno, o presto o tardi, dovremo cedere.
 

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