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C’era una volta, tanti e tanti anni fa, in un minuscolo paesello lontano lontano, un blogger che addolciva la sua irrimediabile solitudine affidandone al WEB la melanconia e comunque la saggezza ch’essa gli procacciava. Ma anche questo piccolo sfogo era continuamente messo in discussione da interlocutori, talora molto agguerriti. Del che non si rammaricava affatto, essendo appunto il contraddittorio il suo obiettivo di blogger. Ma con un’eccezione: la costante ingerenza di un commentario ipercritico, sempre e soltanto inteso alla confutazione e alla denigrazione, ossia alla negatività, di tutto ciò che cadeva nel raggio della sua azione refrattaria.   
Tale si era una dama sconosciuta che si arguiva di una certa età e cultura e che non gli dava tregua, incalzandolo di notte in dì, ad ogni qualsivoglia motto che egli ardisse immettere in rete. Finché egli, ritraendosi dal suo riserbo, le ritorse contro quell’ardire che concedeva al WWW., e le scrisse.
Mia cara antagonista,
ho cercato in ogni modo di restare impassibile davanti allo stile “attizzatoio” dei tuoi commenti, ma se tu vuoi la tua graticola, eccola.
L’elemento permanente e ricorrente nel tuo commentario è la critica (acida) al pensiero “fondamentalista” di quelli che, secondo te, e cioè tutti, me compreso, si ritengono detentori di verità assolute. Per quanto mi riguarda, non mi ci spreco nemmeno a confutare una tale sciocchezza: io sono fondato sul dubbio, sul relativismo di ogni santa e pur infinitesima briciola del nostro assetto logico-morale, un assetto del resto soltanto psico-linguistico.
No, mi preme invece porre l’accento sul pulpito onde cui viene predicata la confutazione del pensiero assoluto. Sì, perché tale confutazione viene a sua volta enunciata in modo assoluto. E questo mi fa un po’ sorridere e mi rimanda ad un amico. Secondo lui, che ha conosciuto una marea di gente,  nessuna verità è definitiva e inopinabile. Non esiste LA verità, sostiene, ma una infinità di verità discordanti, ognuna assegnata al proprio portatore che, di norma, la spaccia per quella vera (l’”unica”), confliggendo con quella di tutti gli altri. Un concetto che sarebbe condivisibile, se questa sola verità non dovesse far eccezione: l’unica verità indiscutibile e assoluta è che la verità non esiste. Cadendo in contraddizione: se la verità non esiste, non è vero che la verità non esiste.
Qui, più che l’argomento in sé, sorge spontaneo un: perché? Perché qualcuno si prende la briga di assillare qualcun altro usando l’arma, di per sé spuntata in quanto banale (a chiunque si occupi di pensiero), del relativismo? E che razza di accusa è imputare a chicchessia il suo proprio concetto, rivoltolandolo demagogicamente in un fanatismo forzato, indesiderato e imposto? Qui il fuoco va su chi domanda, non su cosa o a chi domanda. Qui la domanda è usata come un rasoio, e allora cosa vuole chi infligge rasoiate e cosa lo spinge? Girava per Roma, tempo fa, un tizio armato appunto di rasoio. Godeva a sfigurare giovani vittime, “colpevoli” della propria avvenenza: perché? È ovvio che il problema risaliva al maniaco, mica alle vittime innocenti. Un problema di affettività, evidentemente. Il colpevole avvertiva il bruciore di uno squarcio nella sfera affettiva, una ferita causata magari da una madre disinteressata a lui, che lo esortò a convincersi di non poter essere amato mai. E l’umiliazione di questa profonda, ma oscura, coscienza di sé e della propria infelice inadeguatezza all’amore, lo istigava quindi alla vendetta, poi attuata nel suo spregevole passatempo.
È questa, o mia nemica, la chiave per penetrare nel tuo astioso castello: sei sola, disperata, in-amata… Se il rasoio del pazzoide romano significava: ti abbatto perché non puoi volermi bene;  il “piacere”, per così dire, della vendetta celava al di là della propria anestetica  immediatezza, un male ancora più grande e straziante, quello di illustrare a se stessi la propria ignominia, confermando la sentenza originaria sulla sua vita, mai amata da nessuno.    
E se andiamo ancora più indietro nel suo problema che è il tuo, sia pure in altri termini, troviamo ciò che gli psicologi dicono sia la “coazione a ripetere”, un impulso maledetto a riprodurre le circostanze che causano sofferenza, proprio per soffrirla e dimostrare così a se stessi di non meritare di vivere: la “coazione a ripetere” è l’anticamera della “pulsione di morte”.
Così, il torturatore è un “torturatore di se stesso” che semina zizzania e discordia, soltanto perché torni a lui, sotto forma di odio, la disistima che nutre verso di sé e che vorrebbe usare da traino affinché anche gli altri la condividano. Introducendolo alle arti della morte.
Smettila, se non vuoi morire!
 
Fin qui la lettera, anzi la mail, del nostro blogger. Se lei rispose e come, non lo sappiamo ancora. Sappiamo tuttavia di molti casi analoghi in cui, dei maniaci digitali, digitano le loro invettive a tutto campo, istigando talora, in menti più deboli, il loro stesso istinto suicida. E fornendoci magari la risposta al perché che cercavamo: forse, cercano di espellere da sé il proprio suicidio, respingendolo nelle nicchie psichiche meno resistenti di disperati, più disperati ancora.
 

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