Scritto da © Bruno Amore - Lun, 01/02/2010 - 19:03
Andando per la città vecchia, quella popolana d’una volta, la vera urbe portuale, si respira l’atmosfera umida, gravida di odori d’umana vivenza e salmastro, bitumi, vernici, opere portuali, che fa del carruggio l’elemento genitore dell’habitat cittadino genovese, più delle piazze, viali e residenze patrizie e nobili. Tra mura di casamenti stretto, che lo riparano da libeccio, tramontana e maestrale, apre la bocca ai moli d’attracco, vicino alla banchina a bagno nel mare. Le colline a ridosso , hanno limitato e reso angusto lo spazio utilizzabile, squalificato perché necessitato di impiantarvi cantieri, fondachi, botteghe di artigiani carpentieri, nonché abituri di maestranze e marineria di terra e di bordo. Fu nido, rifugio di gente presa ogni dì, dal vivere e sopravvivere pregnante presenza organica della città antica, feudale; linfa insostituita e insostituibile della potenza armatrice marittima dogale. Ora è un luogo vecchio, lì da sempre e ancora e sempre riparo di precarie esistenze, emarginate, escluse. Racconta tutto il suo tempo, nei lucidi selci, nelle ombre di certi anfratti, angoli fuori vista, pregni di sentori acidi di corporalità espulse. Gli sbreghi sui muri e l’incuria edile, sono ancora, più atmosfera che colpevole trascuratezza, segnali di precarie economie personali. Fondi nobili per attività antiche, oggi mal sopportate, divenuti bettole ricettacolo, ristori pregni di effluvi quasi domestici, acri, di tabacco, vino, fritture e fiato umano. I cento bettolieri, avvicendatisi, li hanno lasciati intatti : un po’ di calce alle pareti, agli stipiti di ingresso. Suppellettili e muri graffiti da mille ricordi: nomi, luoghi, ex voto, promesse o semplici danneggiamenti. Covi di finti marittimi e marinai, immigrati con navi clandestine, prostitute e pederasti, con aria finta di posti lontani, fantastici, con nomi storpiati, dialettali. Sempre si parla di sesso con compagne/i stupende/i, esotiche, calde, avide, sempre venali. Di sport popolari post domenicali, diatribe isteriche, irrazionali. Racconti di vita più inventata che vissuta, che la luce opaca degli occhi vecchi, appannati da cattivo alcool, tradisce; fole sempre al passato mai futuro, più facezie che verità, nostalgiche arie di giovinezza, rimpianti. Per alcuni, sosta sul percorso usato, tappa ristoratrice amicale, povera aria mondana, a chiusura del travaglio giornaliero. Di altri tana rifugio prima del sottoponte, androne, vecchio porticato poco praticato, lì intorno non distante. Il selciato antico, nel silenzio possibile della sera, rimanda rumore di passi lenti, pesanti, di chi va verso il riposo notturno. E la brezza umida, è compagna malinconica per tutti, come la voce di De Andrè.
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