Scritto da © Hjeronimus - Mer, 17/10/2012 - 08:47
I
Orbene, come accennato poc’anzi, il grande merito di Giotto e di Duccio, come d’altronde già variamente argomentato da esimi storici d’arte, era stato quello di coniugare le due grandi tradizioni figurative dell’arte d’occidente, quella romanica e quella bizantina, in unità espressiva e poi di associare tale unità alla emergente necessità di “spazializzarla”, di inserirla in un contesto, in un “paesaggio” coerente alla percezione ottica del reale. Se nel far ciò raccoglievano, da un lato, il testimone lasciato dagli affreschi di Pietro Cavallini in Roma, in cui l’effetto spaziale è correlato all’uso, appunto, illusionistico del chiaroscuro, dall’altro si ponevano in piena “controluce” rispetto alle direttive dei concili bizantini, che avevano sancito la contumacia della spazialità dalle rappresentazioni plastiche in quanto atte, queste, ad esaltare la maestà della sacre figure ritratte, le quali, in quanto trascendentali, andavano collocate in un luogo “altro” da quello terreno, ossia volumetrico, spaziale.
Tale dissidio ci sembra comunque oggidì solo apparente, perché, nel contenuto, i Bizantini giunsero infine a privilegiare appunto la figura umana, finendo per immettersi in quella traiettoria pre-umanistica che la fatica di Giotto vorrà soltanto ricollocare in un contesto più logico e coerente all’ambiente umano e terreno. Con in più la componente della rinascita, della resurrezione del valore all’interno del contesto medesimo. Perché la vita aveva riacquistato valore sulla terra e nell’immaginario collettivo il cielo andava riconvertendosi in quella “immagine e somiglianza” con cui il Dio aveva voluto plasmare dal fango la figura umana. Ma il compito s’era già annunciato tutt’altro che agevole. Ci fu una vera odissea figurativa per arrivare alla definizione più o meno sicura di coordinate plausibili per la costruzione dell’immagine. E per approdare a Giotto, e da lui al Masaccio, il pelago della figurazione navigò per due secoli tra le sponde dell’Egeo e quelle di Gibilterra…
Ora, vorrei dire, l’idea stessa di “rappresentazione” ci incunea nella medesima problematica che aveva cagionato il concilio niceano. Se io intendo rappresentare qualcosa, è perché questa cosa riveste per me un certo significato. E il mio intendimento è alla fine quello di valorizzare, di enfatizzare questo significato, di modo che esso si elevi ad un tale livello di percezione da commutarsi in predicazione, e al più alto grado possibile. Io predico e annuncio la bontà del mio oggetto, convinto delle sue qualità intrinseche, tali da meritarsi appunto l’onere che mi accollo. Se questo proselitismo si trasfonde nella sfera dell’arte, della figura, del disegno, ecco che la sua funzione rappresentativa si riversa necessariamente nella percezione visiva della fruizione a cui è diretto. È l’”uomo che guarda” il polo ricevente dell’emissione del messaggio. E se quello non c’è, anche il messaggio cessa di esistere. Così, se l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio, è necessario che la sua rappresentazione sia adeguata ai mezzi del ricevente, del fruitore. Se tale mezzo è il vedere, bisogna che gli si mostri, e che gli si mostri come valore, ciò che per lui è riconoscibile, anche appunto come valore. Se per esempio pensiamo a uno specchio, sappiamo che a quasi tutti gli animali non gliene cale un accidenti dell’immagine specchiata. Perché per lui, non ne va della sua vita, o del senso della stessa, in quell’immagine. Per noi sì, per noi ha un valore, addirittura fondativo (Lacan), ecco perché possiamo leggerla. Non è un capire, bensì un andarne per… La rappresentazione astratta di un Dio, di una Imago Hominis, si riferisce alla facoltà allucinatoria di immaginarsi un “mondo migliore”, anche come referente del mondo pessimo visibile. Il bisogno di una rappresentazione spaziale, invece, predica il valore e la bellezza del creato e configura alla fine, rispetto alla precedente, uno scarto epocale, il trapasso da una concezione “eterea” e sovrannaturale dell’estetica a quella umana, e troppo umana, dell’Umanesimo.
Così il Gotico preme alle terga di Duccio e di Giotto affinché essi aprano lo spazio rappresentativo, e loro premeranno alle spalle del Rinascimento affinché questo escogiti una Weltanschauung nuova per una Ethica more geometrico – alla Spinoza – della realtà nuova che germogliava sulle coordinate spaziali, sugli assi, i fuochi e le fughe di una visione, e cioè un’interpretazione, scientifica del mondo. E il mondo delle immagini, il cui essenziale referente fondativo non era più già la “forma” degli dèi, ma come l’occhio umano vede la forma, era mosso dalla percezione di una regola, un sistema del reale in base al quale ogni immagine fosse riconducibile, solo che tale “libro” non saltava mai fuori, neanche appellandosi a quelli di Vitruvio, il grande architetto dell’antichità che di libri ne aveva lasciati numerosi.
Se riduciamo all’osso il problema della rappresentazione ai tempi di Giotto, potremmo dire: osservando una costruzione a forma di parallelepipedo, per esempio il palazzo di vetro di Niemeyer, mettendoci davanti a uno degli spigoli dei quattro lati, otterremo una vista di un lato e una facciata dello stesso. Ridotto a segni, si tratterà di tre linee verticali e due orizzontali: queste ultime tuttavia ci appaiono sghembe. Sono linee in fuga. Già, ma in fuga da che? Era questo il problema di Giotto e del suo tempo. E lui e Duccio, e molti altri, escogitarono questo responso: sono in fuga da un asse centrale. Ossia, per riprodurle su un piano di lavoro, disegneremo all’incirca al centro dello stesso una linea verticale verso cui tutte quelle oblique delle fughe verteranno parallelamente. Un concetto simile all’assonometria, ma che svolge una funzione che è ancora memore di una concezione sacrale e aristocratica (cioè medioevale) della rappresentazione, ove ciò che appare centrale è maggiore, ha più valore di ciò che sta ai lati (nel Gotico Internazionale ci si imbatte sovente in figurazioni irrazionali, in cui chi è più importante vien reso come un gigante a fronte di “nanetti”, comparse meno significative). Se la regola formale coincide con un centro dell’immagine percepita dall’occhio, ciò che cade su questa centralità è il cuore significante della rappresentazione e tutte le linee di fuga vi convergono. Ma la sua sostanza, essendo noi animali verticali, è appunto la verticalità, laonde il “fuoco” di questa visione è verticale, cioè è un asse che taglia in due il supporto. Tutte o quasi le tavole dipinte da Giotto sono quindi simmetriche. L’ordine a cui egli piega la forma e al quale subordina il principio del valore, è quello di una geometrica armonia, di una perfetta corrispondenza fra le due metà del suo dipinto, e in tale perfezione egli colloca quella divina: la divinità è la simmetria.
Orbene, come accennato poc’anzi, il grande merito di Giotto e di Duccio, come d’altronde già variamente argomentato da esimi storici d’arte, era stato quello di coniugare le due grandi tradizioni figurative dell’arte d’occidente, quella romanica e quella bizantina, in unità espressiva e poi di associare tale unità alla emergente necessità di “spazializzarla”, di inserirla in un contesto, in un “paesaggio” coerente alla percezione ottica del reale. Se nel far ciò raccoglievano, da un lato, il testimone lasciato dagli affreschi di Pietro Cavallini in Roma, in cui l’effetto spaziale è correlato all’uso, appunto, illusionistico del chiaroscuro, dall’altro si ponevano in piena “controluce” rispetto alle direttive dei concili bizantini, che avevano sancito la contumacia della spazialità dalle rappresentazioni plastiche in quanto atte, queste, ad esaltare la maestà della sacre figure ritratte, le quali, in quanto trascendentali, andavano collocate in un luogo “altro” da quello terreno, ossia volumetrico, spaziale.
Tale dissidio ci sembra comunque oggidì solo apparente, perché, nel contenuto, i Bizantini giunsero infine a privilegiare appunto la figura umana, finendo per immettersi in quella traiettoria pre-umanistica che la fatica di Giotto vorrà soltanto ricollocare in un contesto più logico e coerente all’ambiente umano e terreno. Con in più la componente della rinascita, della resurrezione del valore all’interno del contesto medesimo. Perché la vita aveva riacquistato valore sulla terra e nell’immaginario collettivo il cielo andava riconvertendosi in quella “immagine e somiglianza” con cui il Dio aveva voluto plasmare dal fango la figura umana. Ma il compito s’era già annunciato tutt’altro che agevole. Ci fu una vera odissea figurativa per arrivare alla definizione più o meno sicura di coordinate plausibili per la costruzione dell’immagine. E per approdare a Giotto, e da lui al Masaccio, il pelago della figurazione navigò per due secoli tra le sponde dell’Egeo e quelle di Gibilterra…
Ora, vorrei dire, l’idea stessa di “rappresentazione” ci incunea nella medesima problematica che aveva cagionato il concilio niceano. Se io intendo rappresentare qualcosa, è perché questa cosa riveste per me un certo significato. E il mio intendimento è alla fine quello di valorizzare, di enfatizzare questo significato, di modo che esso si elevi ad un tale livello di percezione da commutarsi in predicazione, e al più alto grado possibile. Io predico e annuncio la bontà del mio oggetto, convinto delle sue qualità intrinseche, tali da meritarsi appunto l’onere che mi accollo. Se questo proselitismo si trasfonde nella sfera dell’arte, della figura, del disegno, ecco che la sua funzione rappresentativa si riversa necessariamente nella percezione visiva della fruizione a cui è diretto. È l’”uomo che guarda” il polo ricevente dell’emissione del messaggio. E se quello non c’è, anche il messaggio cessa di esistere. Così, se l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio, è necessario che la sua rappresentazione sia adeguata ai mezzi del ricevente, del fruitore. Se tale mezzo è il vedere, bisogna che gli si mostri, e che gli si mostri come valore, ciò che per lui è riconoscibile, anche appunto come valore. Se per esempio pensiamo a uno specchio, sappiamo che a quasi tutti gli animali non gliene cale un accidenti dell’immagine specchiata. Perché per lui, non ne va della sua vita, o del senso della stessa, in quell’immagine. Per noi sì, per noi ha un valore, addirittura fondativo (Lacan), ecco perché possiamo leggerla. Non è un capire, bensì un andarne per… La rappresentazione astratta di un Dio, di una Imago Hominis, si riferisce alla facoltà allucinatoria di immaginarsi un “mondo migliore”, anche come referente del mondo pessimo visibile. Il bisogno di una rappresentazione spaziale, invece, predica il valore e la bellezza del creato e configura alla fine, rispetto alla precedente, uno scarto epocale, il trapasso da una concezione “eterea” e sovrannaturale dell’estetica a quella umana, e troppo umana, dell’Umanesimo.
Così il Gotico preme alle terga di Duccio e di Giotto affinché essi aprano lo spazio rappresentativo, e loro premeranno alle spalle del Rinascimento affinché questo escogiti una Weltanschauung nuova per una Ethica more geometrico – alla Spinoza – della realtà nuova che germogliava sulle coordinate spaziali, sugli assi, i fuochi e le fughe di una visione, e cioè un’interpretazione, scientifica del mondo. E il mondo delle immagini, il cui essenziale referente fondativo non era più già la “forma” degli dèi, ma come l’occhio umano vede la forma, era mosso dalla percezione di una regola, un sistema del reale in base al quale ogni immagine fosse riconducibile, solo che tale “libro” non saltava mai fuori, neanche appellandosi a quelli di Vitruvio, il grande architetto dell’antichità che di libri ne aveva lasciati numerosi.
Se riduciamo all’osso il problema della rappresentazione ai tempi di Giotto, potremmo dire: osservando una costruzione a forma di parallelepipedo, per esempio il palazzo di vetro di Niemeyer, mettendoci davanti a uno degli spigoli dei quattro lati, otterremo una vista di un lato e una facciata dello stesso. Ridotto a segni, si tratterà di tre linee verticali e due orizzontali: queste ultime tuttavia ci appaiono sghembe. Sono linee in fuga. Già, ma in fuga da che? Era questo il problema di Giotto e del suo tempo. E lui e Duccio, e molti altri, escogitarono questo responso: sono in fuga da un asse centrale. Ossia, per riprodurle su un piano di lavoro, disegneremo all’incirca al centro dello stesso una linea verticale verso cui tutte quelle oblique delle fughe verteranno parallelamente. Un concetto simile all’assonometria, ma che svolge una funzione che è ancora memore di una concezione sacrale e aristocratica (cioè medioevale) della rappresentazione, ove ciò che appare centrale è maggiore, ha più valore di ciò che sta ai lati (nel Gotico Internazionale ci si imbatte sovente in figurazioni irrazionali, in cui chi è più importante vien reso come un gigante a fronte di “nanetti”, comparse meno significative). Se la regola formale coincide con un centro dell’immagine percepita dall’occhio, ciò che cade su questa centralità è il cuore significante della rappresentazione e tutte le linee di fuga vi convergono. Ma la sua sostanza, essendo noi animali verticali, è appunto la verticalità, laonde il “fuoco” di questa visione è verticale, cioè è un asse che taglia in due il supporto. Tutte o quasi le tavole dipinte da Giotto sono quindi simmetriche. L’ordine a cui egli piega la forma e al quale subordina il principio del valore, è quello di una geometrica armonia, di una perfetta corrispondenza fra le due metà del suo dipinto, e in tale perfezione egli colloca quella divina: la divinità è la simmetria.
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