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Ama le gerbere, perdutamente

Sono comunissime, le Gerbere e, forse, lo sono sempre state, ma danno l'impressione di aver invaso questo paese, ad un certo momento, forse per motivi commerciali, come è avvenuto con i tulipani. Nella coltivazione in campo aperto, ma anche in serra, come per i tulipani appunto, sono uno spettacolo cromatico mozzafiato: colori e toni, quasi infiniti; e quella apparente perfezione della forma, tutte uguali, bellissime da sembrare finte, più di quelle finte, che insieme al fatto di non  profumare, le fanno sembrare aliene.
Poteva avere tredici anni.
Era venuta su con l'acre odore dell'unghia bruciata nelle narici, suo padre faceva il maniscalco, e la famiglia alloggiava nel retrobottega: d'inverno era utile il calore emanato dalla forgia. Sin da piccolissima, esibì una peculiare mania: odorare tutto, fiori e altro, seguendo col naso all'aria, ogni profumo che si spargeva intorno o che il vento le portava.
Era affetta da una non grave forma della sindrome di Down, e la tipica fisionomia non era eclatante, quindi Serafina poté, nonostante l'imbarazzo mai ammesso dai suoi, crescere nella comunità, accettata senza tanti limiti, che ne aveva, naturalmente.
In quel tempo, sue padre assunse un garzone, un ragazzo magro con la fisionomia mongola, figlio di parenti alla lontana, con dei limiti intellettivi, anche lui, ma perfettamente in grado di fare lavori manuali, anche non semplicissimi. Aveva circa diciotto anni e come noto, quando ci sia quella sindrome, possono sembrare infantili anche se adulti. Lui, al contrario, sembrava troppo adulto, per l'età che aveva e gli insegnarono a radersi spesso, per apparire più giovane. Usava una lozione dopobarba profumatissima.
Questo fu un irresistibile invito per il naso di Serafina. Difatti non perdeva occasione per annusarlo, ridendone con lui e i genitori della ragazzina, trovarono la compagnia di Giacomino, sempre diminutivi per queste anime, utile alla crescita più equilibrata per lei, che non aveva fratelli né amicizie infantili. Nei rari momenti di pausa di lui, giocavano rumorosamente anche a dispetto dei richiami dei genitori di lei. Giochi infantili, fraterni, si dissero.
Una mattina Giacomino portò a Serafina una gerbera viola, strappata dal giardinetto di sua madre, e siccome lei l'annusò facendo una espressione delusa, lui trasse di tasca la boccetta del dopobarba che portava sempre con se e ne fece cadere alcune gocce sulla corolla del fiore. Lei corse via estasiata. L'interazione divenne sempre più stretta, lui si tratteneva oltre l'orario di lavoro. Andavano a sedersi sotto un grande fico a chiacchierare.
Ad un anno di distanza, la madre di Serafina, di ritorno dall'ambulatorio dove periodicamente la portava per i controlli, sconvolta e con gli occhi gonfi di un evidente lunghissimo pianto, condusse il marito sotto la ficaia e gli rivelò quello che il medico le aveva rivelato: Serafina era incinta. L'uomo, fuori di se, con il manico di un badile, ridusse Giacomino un ecce homo e lui, senza capire, si lasciò picchiare a sangue. Lasciò la bottega solo spinto via dalla madre della ragazza, che temeva il peggio.
Con l'allontanamento di Giacomino, Serafina ebbe un crollo nervoso, andò in paranoia, abortì e fu presto impossibile tenerla a casa. Venne ricoverata in un istituto apposito.
Ora passeggia nella calma dei farmaci, lungo i cortili di quella grande villa ottocentesca destinata a nosocomio. Stringe sempre in mano una gerbera finta color viola, sulla cui corolla tenta di far cadere inesistenti gocce di dopobarba da quella boccetta che lui le aveva regalato. L'annusa e sorride...sorride...sorride
 
PS
sempre valido l'invito a suggerire e correggere.

 

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