Scritto da © Hjeronimus - Mar, 21/08/2012 - 22:17
Tutto quanto abbiamo sin qui osservato sul Gotico è riferito massimamente all’architettura gotica, quindi a duomi e cattedrali distribuiti su tutta l’Europa cristiana. Val la pena quindi di richiamare quell’idea di “Summa Teologica” che simili “Fabbriche” evocavano in sé. Esse si ripromettevano di costituire una sintesi di tutto lo scibile universale e abbracciavano perciò in sé esempi e modelli di una totalità che era quintessenza e significato di tutta l’esperienza conosciuta. Una esperienza che andava dall’arte alla teologia, dall’ingegneria all’esoterica, dalla filosofia alla musica. Il magistero della conoscenza si riconduceva alle arti liberali, così come le aveva illustrate Marziano Capella nel suo incantevole “Nozze di Filologia e Mercurio”, una rappresentazione dei 7 lati della scienza, con delega all’insegnamento. Vediamo: lo scrittore ci presenta in prima istanza un Trivio - Grammatica, Dialettica, Retorica -, seguito poi da un Quadrivio - Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica -.
Mi ha sempre meravigliato l’accostamento della Retorica alla Dialettica (che non è altro che la filosofia e quindi la teologia), così come l’aritmetica alla musica, come a dire: non c’è filosofia senza racconto, e non c’è musica senza far di conto. Così il Logos (la Filologia) va sposo alla eloquenza (Mercurio), e la musica si struttura come una equazione (per esempio, la fuga).
Quanto alla pittura gotica, questa si verrà enucleando da una genesi coerente a quella in corso nell’architettura, ma troverà un rutilante sviluppo nel Gotico Internazionale, che la porterà a confluire dolcemente e senza strappi nel Rinascimento- fuorché in Italia, ove tutti questi movimenti si caratterizzeranno sempre in modo peculiare e originale.
Mi ha sempre meravigliato l’accostamento della Retorica alla Dialettica (che non è altro che la filosofia e quindi la teologia), così come l’aritmetica alla musica, come a dire: non c’è filosofia senza racconto, e non c’è musica senza far di conto. Così il Logos (la Filologia) va sposo alla eloquenza (Mercurio), e la musica si struttura come una equazione (per esempio, la fuga).
Quanto alla pittura gotica, questa si verrà enucleando da una genesi coerente a quella in corso nell’architettura, ma troverà un rutilante sviluppo nel Gotico Internazionale, che la porterà a confluire dolcemente e senza strappi nel Rinascimento- fuorché in Italia, ove tutti questi movimenti si caratterizzeranno sempre in modo peculiare e originale.
Lo stile gotico, il cui nome era una “offesa” escogitata dal Rinascimento Italiano a classificarlo come cosa da “Goti”, ossia barbara e disarmonica, si venne lentamente configurando, dapprima nella regione dell’Ile de France (segnatamente, vengono considerati punti di partenza Saint-Denis e Nôtre-Dame a Parigi, e la cattedrale di Chartres). Ma precedentemente ne abbiamo fatto risalire la scaturigine ai Cistercensi di Bernardo di Chiaravalle. Alla loro morale severa e alla loro ferrea disciplina. È l’urto interiore, la vocazione alla pura luce e alla verità pura, la molla che gli fa concepire soluzioni diverse e originali per un nuovo stile. La cattedrale cistercense è bianca come la luce pura, e sciorina una candida fuga di archi ogivali, tutti uguali e tutti parimenti scevri da arredi o decorazioni. L’effetto è severo, e altresì mistico, perché ci rappresenta l’infinito come infinita ripetizione- e ciò che è ripetuto è il bianco modulo dell’ogiva che grava su semi-colonnine addossate ai pilastri compositi, cioè multiformi.
L’arco a ogiva mostra una statica diversa dall’arco a tutto sesto. Come questo, scarica parte della spinta della volta sui pilastri, mentre tuttavia, sul lato opposto, ossia sull’apice della chiave di volta, poggia semplicemente il proprio peso, e lo scarica, sul semi-arco opposto, dal quale riceve un mutuo sostegno. Il punto debole di questa struttura è a metà del semi-arco, cioè al punto medio tra l’abaco sul quale l’arco si innesta sul pilastro, e l’apice dell’ogiva, la chiave di volta. Era lì che sgretolavano e venivan giù numerose ogive gotiche. Tuttavia, sospetto che proprio di là, da quell’”appoggio” mutuo fra i due semi-archi, scaturì il concepimento di ciò che divenne il cardine del Gotico, qualcosa che risolveva definitivamente l’assillo “celeste” degli architetti: fare entrare Dio, in forma di luce, all’interno della sua terrena dimora.
Ora, non ci sono santi: per permettere alla luce di accedere in un ambito costruito, bisogna abbattere le pareti e abbattere le pareti significa affidarsi a un sistema di strutture agili e possenti che ne sostengano le spinte, senza gravare illogicamente sulle vetrate. E il contrafforte, da solo, è inadeguato a tale bisogna. E, se nell’ogiva i due semi-archi congiunti “spingevano” l’uno sull’altro, appoggiandosi reciprocamente, forse era possibile adottare un analogo accorgimento per rinforzare il contrafforte e “liberare” così la funzione portante delle mura. Un sistema di spinte e contro-spinte che riporta sull’esterno il medesimo gioco dell’arco ogivale interno: è l’arco rampante, il “cordone ombelicale” e qualificante del Gotico. Se gettiamo un’occhiata a scendere dalla chiave di volta, osserviamo il costolone discendere sul pilastro, scaricandovi la sua spinta. Se adesso usciamo all’esterno, vedremo che su quel punto di spinta si inserisce un altro gioco analogo, in scala minore discendente, ove il semi-arco raccoglie la spinta dell’interno e la scarica a sua volta su un altro pilastro (o contrafforte) posto esternamente in parallelo a quello perimetrale: lo scheletro di una specie di gigantesco dinosauro si distende torno torno all’aula della cattedrale, con lo scopo rovesciato di sostenere il corpo di fabbrica dal di-fuori, e non dall’interno. Così, mentre le pareti sui lati del contrafforte si svuotano, facendo luogo a luminosi finestroni dalle multicolori vetrate istoriate, all’esterno, sopra le giunture dello “scheletro”, si eleva un’impressionante, fantasmagorica moltitudine di torri, pinnacoli, guglie, edicole, lanterne, spesso albergate da un popolo di sculture che, col loro realismo arrampicato su quelle vertiginose solitudini, fanno fremere di paura e di ammirazione i fedeli che vagano estasiati al di sotto.
Quando Sugero, abate di Saint-Denis, per la prima volta percorre il deambulatorio della sua chiesa scintillante di luce, presume davvero di essere immerso nella luce della rivelazione, cioè la stessa luce neoplatonica che egli attinge da Dionigi Aeropagita, cui la chiesa è consacrata, il quale la interpretava come “presenza” metafisica dell’essere, specchiandosi nella preziosità di “ciò che è”, come l’oro che sempre riluce sullo sfondo del paesaggio gotico. Di modo che il Dio è luce, è oro, è splendore… Già, ma la tecnologia “aurorale" di Saint-Denis e di Chartres, coi loro pilastri ancora possenti e i grandiosi matronei a chiuderli in alto, doveva toccare vette ancora più sublimi, prima di abdicare al classicismo rinascimentale, e poi al Barocco. Sorgeranno ancora veri e propri scrigni di luce dalle articolazioni filiformi, appuntite verso volte dorate e stellate, come piccole porzioni d’infinito. La Sainte-Chapelle, la vetrina “cromatica” di Sain-Nazaire a Carcassonne, o il duomo di Praga, ove Peter Parler ripudierà completamente i matronei onde dare maggiore risalto alla penetrazione della luce attraverso le finestre gigantesche.
La cattedrale gotica va quindi a immedesimarsi sempre più con una specie di scatola delle meraviglie, un forziere che, tempestato di gemme e di brillanti, si tramuta sotto gli occhi degli sbigottiti visitatori in una specie di arca ricolma di luce cortese, brillante e adamantina. A tal fine, al fine cioè di rappresentarla come un cofano di preziosi, essa viene meticolosamente costolonata, onde conferirle quell’aspetto di involucro di magnificenze, fino a impacchettarla in nastri di pietra che la rendono esorbitante, come la topografia di una città moderna. Ora, sui costoloni, si presume che abbiano una funzione non solo decorativa. Forse, erano anche sostegni importanti delle volte. Fatto sta che sopra le prime campate gotico-romaniche si constata la presenza di venature incrociate a X, la crociera della volta, che forse svolgono una funzione portante. E più avanti, sopra questa X ecco la comparsa di grosse costole pronunciate e sovente decorate, come a delineare l’anatomia della immensa creatura sospesa sulle teste degli avventori. Le parti murate all’interno di queste crociere, le vele, qualche volta sono venute giù, lasciando a nudo l’armatura dei costoloni contro il cielo. Il che lascia supporre una loro funzione più energica sulla intera volta. Ma nessuno andrà lassù a prendere le dovute misure. Accontentiamoci di queste ogive romantiche, puntate nel loro secolare silenzio contro l’azzurro della volta astrale.
L’arco a ogiva mostra una statica diversa dall’arco a tutto sesto. Come questo, scarica parte della spinta della volta sui pilastri, mentre tuttavia, sul lato opposto, ossia sull’apice della chiave di volta, poggia semplicemente il proprio peso, e lo scarica, sul semi-arco opposto, dal quale riceve un mutuo sostegno. Il punto debole di questa struttura è a metà del semi-arco, cioè al punto medio tra l’abaco sul quale l’arco si innesta sul pilastro, e l’apice dell’ogiva, la chiave di volta. Era lì che sgretolavano e venivan giù numerose ogive gotiche. Tuttavia, sospetto che proprio di là, da quell’”appoggio” mutuo fra i due semi-archi, scaturì il concepimento di ciò che divenne il cardine del Gotico, qualcosa che risolveva definitivamente l’assillo “celeste” degli architetti: fare entrare Dio, in forma di luce, all’interno della sua terrena dimora.
Ora, non ci sono santi: per permettere alla luce di accedere in un ambito costruito, bisogna abbattere le pareti e abbattere le pareti significa affidarsi a un sistema di strutture agili e possenti che ne sostengano le spinte, senza gravare illogicamente sulle vetrate. E il contrafforte, da solo, è inadeguato a tale bisogna. E, se nell’ogiva i due semi-archi congiunti “spingevano” l’uno sull’altro, appoggiandosi reciprocamente, forse era possibile adottare un analogo accorgimento per rinforzare il contrafforte e “liberare” così la funzione portante delle mura. Un sistema di spinte e contro-spinte che riporta sull’esterno il medesimo gioco dell’arco ogivale interno: è l’arco rampante, il “cordone ombelicale” e qualificante del Gotico. Se gettiamo un’occhiata a scendere dalla chiave di volta, osserviamo il costolone discendere sul pilastro, scaricandovi la sua spinta. Se adesso usciamo all’esterno, vedremo che su quel punto di spinta si inserisce un altro gioco analogo, in scala minore discendente, ove il semi-arco raccoglie la spinta dell’interno e la scarica a sua volta su un altro pilastro (o contrafforte) posto esternamente in parallelo a quello perimetrale: lo scheletro di una specie di gigantesco dinosauro si distende torno torno all’aula della cattedrale, con lo scopo rovesciato di sostenere il corpo di fabbrica dal di-fuori, e non dall’interno. Così, mentre le pareti sui lati del contrafforte si svuotano, facendo luogo a luminosi finestroni dalle multicolori vetrate istoriate, all’esterno, sopra le giunture dello “scheletro”, si eleva un’impressionante, fantasmagorica moltitudine di torri, pinnacoli, guglie, edicole, lanterne, spesso albergate da un popolo di sculture che, col loro realismo arrampicato su quelle vertiginose solitudini, fanno fremere di paura e di ammirazione i fedeli che vagano estasiati al di sotto.
Quando Sugero, abate di Saint-Denis, per la prima volta percorre il deambulatorio della sua chiesa scintillante di luce, presume davvero di essere immerso nella luce della rivelazione, cioè la stessa luce neoplatonica che egli attinge da Dionigi Aeropagita, cui la chiesa è consacrata, il quale la interpretava come “presenza” metafisica dell’essere, specchiandosi nella preziosità di “ciò che è”, come l’oro che sempre riluce sullo sfondo del paesaggio gotico. Di modo che il Dio è luce, è oro, è splendore… Già, ma la tecnologia “aurorale" di Saint-Denis e di Chartres, coi loro pilastri ancora possenti e i grandiosi matronei a chiuderli in alto, doveva toccare vette ancora più sublimi, prima di abdicare al classicismo rinascimentale, e poi al Barocco. Sorgeranno ancora veri e propri scrigni di luce dalle articolazioni filiformi, appuntite verso volte dorate e stellate, come piccole porzioni d’infinito. La Sainte-Chapelle, la vetrina “cromatica” di Sain-Nazaire a Carcassonne, o il duomo di Praga, ove Peter Parler ripudierà completamente i matronei onde dare maggiore risalto alla penetrazione della luce attraverso le finestre gigantesche.
La cattedrale gotica va quindi a immedesimarsi sempre più con una specie di scatola delle meraviglie, un forziere che, tempestato di gemme e di brillanti, si tramuta sotto gli occhi degli sbigottiti visitatori in una specie di arca ricolma di luce cortese, brillante e adamantina. A tal fine, al fine cioè di rappresentarla come un cofano di preziosi, essa viene meticolosamente costolonata, onde conferirle quell’aspetto di involucro di magnificenze, fino a impacchettarla in nastri di pietra che la rendono esorbitante, come la topografia di una città moderna. Ora, sui costoloni, si presume che abbiano una funzione non solo decorativa. Forse, erano anche sostegni importanti delle volte. Fatto sta che sopra le prime campate gotico-romaniche si constata la presenza di venature incrociate a X, la crociera della volta, che forse svolgono una funzione portante. E più avanti, sopra questa X ecco la comparsa di grosse costole pronunciate e sovente decorate, come a delineare l’anatomia della immensa creatura sospesa sulle teste degli avventori. Le parti murate all’interno di queste crociere, le vele, qualche volta sono venute giù, lasciando a nudo l’armatura dei costoloni contro il cielo. Il che lascia supporre una loro funzione più energica sulla intera volta. Ma nessuno andrà lassù a prendere le dovute misure. Accontentiamoci di queste ogive romantiche, puntate nel loro secolare silenzio contro l’azzurro della volta astrale.
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