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Beatitudine

L'esser grata, il non aver mai provato in vita sua, almeno non ricordarselo, la beatitudine, lo stato d'equilibrio in cui la pelle non prova né caldo né freddo né dolore, nel quale torcere il collo a destra o sinistra, indietro, in basso o in alto, oppure sorreggere il capo dritto con lo sguardo avanti verso il mare di grano che lievemente freme agli ultimi venti di marzo come una giovane amata in attesa della fiamma di uno sguardo, senza provocar vertigini, ma un subitaneo rilassamento dei tendini e dei muscoli fino a quelli di spalle e schiena, diresse gli occhi di Aurora verso il rosso del trattore.

Non una richiesta, ma una primordialità d'intenti, un sintonizzarsi elettromagnetico quale necessariamente avviene tra un drappo rosso e il toro, qualunque toro ed ogni macchia rossa accesa.

Il trattore, sotto la tettoia di eternit ondulata per ripararlo dalla pioggia e dal sole, chiuso ingabbiato dai sei pali in legno cotti dalle intemperie, rimase là come una bestia china, la groppa scesa sui cingoli d'acciaio, ad aspettarla nel deserto del primo pomeriggio domenicale dell'aia.

Permise docilmente alla giovane moglie di Silvano, il comproprietario del fondo, di accarezzargli le sinuosità del sedile di robusta plastica nera con le dita che avevano perso, in quegli undici mesi di vita in un ambiente diverso da quello cittadino in cui ella era nata, la finezza epidermica, la cura delle unghie, l'untuosità delicatamente profumata delle creme con le quali Aurora si accudiva le tenerezze delle braccia.

Lei, persa in una specie di tranche, provò il predellino zigrinato con la punta del piede, estremamente attenta che lo stesso non scivolasse indietro sul plantare sudato e scivoloso e, per ciò, ferirsi al tallone.

Quindi d'improvviso prese coraggio, alzò l'altro piede da terra, s'aggrappò con tutte e due le mani alla leva più vicina, e sedette sollevandosi la gonna oltre le ginocchia che aveva mantenuto bionde riparandole, al contrario delle sue due cognate, con attenzione dai raggi di quel finire di primavera.

Sul terreno circostante, per la costrizione all'ombra, era cresciuto un leggero velo verde: esili fili destinati ad allungarsi ancora soltanto di qualche centimetro prima di essere schiacciati dalla furia del bestione quando Silvano, Pietro, Tolmino, e Tommaso il loro padre rimasto vedovo anzitempo, avessero deciso di scatenarla trascinando ai bordi dei campi le trebbiatrici; quando le cime del grano avessero dato inizio al ripiegamento su se stesse foriero della nuova semina.

Tommaso, ancora vigoroso, stanco forse di Rosetta e Silvia, impaziente di aspettare invano da lei una o un nipotino, quella notte, l'ultimo figlio al pari degli altri consenziente, l'aveva visitata.

Aurora girò la chiave, il rombo del motore le ottuse i timpani; strinse le dita sulla forcella della leva più vicina e si lasciò andare all'ebbrezza del vento improvviso che le colpì il viso. Guardò il meccanismo evitare per un soffio l'ultimo palo e si indirizzò dritta verso l'erta impossibile del frutteto, portandosi in bocca il puzzo di un molare fradicio.

La trovarono con le viscere scoperte, pulsanti; capillari che maledivano respirando l'azzurro terso sopra una campagna generosa, grassa di terra nera. Li guardava muta, gli occhi socchiusi alla potenza dello zenith, assente come non li avesse mai conosciuti, attenta a non emettere il sia pur minimo lamento.

 

 

 

 

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