Ritratto di donna - 13 | poeti maledetti | ferdigiordano | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Ritratto di donna - 13

            Dove verificava l’eteronimia dei suoi cento nomi era Marina. Un nome pronunciato quasi sciabordi la risacca in una moltitudine di gocce terse, dall’alfabeto costiero; una soluzione a pioggia, si potrebbe credere, ma non per caduta.
            Era figlia della terra più assolata d’Italia, angiporto del più misterioso deserto d’Africa, un mare più avanti.
            Aveva una stella spenta negli occhi: buco nero, dell’unica notte in cui gli angeli chiarirono l’universo aprendo la finestra che dà sulle stelle. Lei era quella che mantenne più a lungo l’attraversamento delle orbite adeguando la collisione al colore: un urto di fiamma cui non seguiva il chiarore esploso. Evocava quelle ombre maliziose e misteriche che fanno del pensiero femminile un cosmo plastico di cronache celesti. Il duttile scoglio che infrange la marea dei pretendenti.
            Il braccio, di fibra sottile ma più che potente, era capace di gesti decisi ad un tempo leggeri, minuziosi. Ti circondava con una grazia agile, misurata, inavvertita. Aveva case costiere sulla bocca promontorio di aderenze carnose, scivolate nella sabbia dei denti, ossario di coralli seducenti. Lo stesso fresco, uguale acquerugiola appena le mani. La sua gola un ghiacciaio eterno, su cui mulina la tormenta i canoni dello scioglimento: un vetro.
           Trasparente e intrisa di riflessi: si capiva quel che diceva da ciò che taceva. Si capiva dalla piega ingenua della nuca, timida, circospetta, a devozione delle labbra serrate per le corte navate del naso francese.
            La pelle, sgrossata da orpelli penduli, aveva la tinta di un affresco che dalle volte magnifica madonne candide, ingenti, senza peccato, con l’orgoglio al capezzolo.
Regale, l’angelo che si sciolse in lei; divine le scapole, a dare prova delle ali che si erano perse.
           
            Come diamanti amava gli uomini: tutti, anche i non compresi.
            Come diamanti mostrava in giro la sua collezione di corpi; tutti, almeno membri.
            Come un gioielliere esperto elencava i bagliori facendoli esplodere nella voce.
            Non aveva memoria, così mi chiamava con nomi diversi, non solo nel tono.Così fui Marco, Paolo, Teo, Senti…, Che pensi?, Ehi!, Luca, Francè; e li risento ancora, deluso dall’eco che inesorabilmente spegne il suono pieno dei luoghi, il suono segreto del rossore: il nome amato, custodito, intriso di ricovero. Perchè mi convince che un nome non sia qualità o vetrina, né testimone, solo un richiamo al tuono dall’uragano in persona.



 

 

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