Scritto da © Hjeronimus - Lun, 13/08/2012 - 13:27
Insomma, un’insopportabile auto-apoteosi in cui viene insinuato un sedicente primato imperial-culturale da parte di una specie di razza superiore che eccelle nella sua gloria sia storica che intellettuale. A parte la svista storica (l’impero è casomai americano, non inglese, anche se parlano la stessa lingua…), quella grandezza morale viene appesa ad una “sociologia musicale” (o pseudo-musicale) che concerne gli effetti, e non le cause, della cultura. In altre parole, la rappresentazione del mondo contemporaneo attraverso il pop è una riduzione all’estetica di un mondo che resta tuttavia un ordimento etico; e far passare per filologia storica il canone della canzonetta è come gettare le fondamenta sul tetto. La storia non l’han fatta le canzonette inglesi, neanche in questo nostro evo deprimente. E non è solo inglese, o dominata dall’inglese. In più sarà bene ricordare che la canzone dagli anni ’60 in su, si pone come frattura con la cultura dominante, come fenomeno di dissenso degli stessi “valori” che vengono invece sbandierati adesso al suono delle stesse musiche che li contestavano. Si rammenti che il più grande musicista inglese di questo nostro tempo, non è stato certamente John Lennon, o Paul Mc Carthney, per quanto talentuosi, né men che meno quello scellerato furbastro di Mick Jagger. Era Benjamin Britten il più grande, fantasma iersera nella Perfida Albione.
Le canzonette non sono che un tenue accompagnamento, una eco smorzata al corso degli eventi. La rivoluzione francese ne produsse in qualche anno più di tremila e, se arriviamo fino a Napoleone, dobbiamo contarle a decine di migliaia. Tutte dimenticate. L’illusione di “esserci stati” rende l’effimero semi-divino, ma provate a chiedere in giro cosa fosse l’effimero barocco e nessuno potrà fornirvi un menomo responso. Eppure l’effimero barocco era il fenomeno più in voga e più clamoroso dell’intera epoca barocca e rese universali (sic!) nomi di “geni” totalmente precipitati nelle tenebre.
Io stesso ascolto di quando in quando canzonette. Ve ne sono di piacevoli e di sentimento. Ma non mi pare perciò di poter discettare di un destino storico di cui, io e le canzonette, saremmo un infallibile oracolo, come fa Albione… Sarebbe bastato accontentarsi di organizzare uno bello spettacolo, come pure era quello di ieri a Londra, senza pretese di auto-incoronazioni senza senso di imperi chimerici e oramai svaniti nel nulla.
Gli Inglesi, già. Ieri sera auto-celebrazione in salsa pop dei “british”, in coincidenza della chiusura dei giochi olimpici di Londra. Sui giornali di oggi sta su che una Woodstock finale ha concluso la festa olimpica… mah… Si è trattato in effetti di una ricognizione globale dell’ultimo mezzo secolo all’insegna del pop e sotto la cometa britannica a mo’ di viacolo, per guidare i pellegrini nel labirinto del contemporaneo- ovviamente, britannico.
Insomma, un’insopportabile auto-apoteosi in cui viene insinuato un sedicente primato imperial-culturale da parte di una specie di razza superiore che eccelle nella sua gloria sia storica che intellettuale. A parte la svista storica (l’impero è casomai americano, non inglese, anche se parlano la stessa lingua…), quella grandezza morale viene appesa ad una “sociologia musicale” (o pseudo-musicale) che concerne gli effetti, e non le cause, della cultura. In altre parole, la rappresentazione del mondo contemporaneo attraverso il pop è una riduzione all’estetica di un mondo che resta tuttavia un ordimento etico; e far passare per filologia storica il canone della canzonetta è come gettare le fondamenta sul tetto. La storia non l’han fatta le canzonette inglesi, neanche in questo nostro evo deprimente. E non è solo inglese, o dominata dall’inglese. In più sarà bene ricordare che la canzone dagli anni ’60 in su, si pone come frattura con la cultura dominante, come fenomeno di dissenso degli stessi “valori” che vengono invece sbandierati adesso al suono delle stesse musiche che li contestavano. Si rammenti che il più grande musicista inglese di questo nostro tempo, non è stato certamente John Lennon, o Paul Mc Carthney, per quanto talentuosi, né men che meno quello scellerato furbastro di Mick Jagger. Era Benjamin Britten il più grande, fantasma iersera nella Perfida Albione.
Le canzonette non sono che un tenue accompagnamento, una eco smorzata al corso degli eventi. La rivoluzione francese ne produsse in qualche anno più di tremila e, se arriviamo fino a Napoleone, dobbiamo contarle a decine di migliaia. Tutte dimenticate. L’illusione di “esserci stati” rende l’effimero semi-divino, ma provate a chiedere in giro cosa fosse l’effimero barocco e nessuno potrà fornirvi un menomo responso. Eppure l’effimero barocco era il fenomeno più in voga e più clamoroso dell’intera epoca barocca e rese universali (sic!) nomi di “geni” totalmente precipitati nelle tenebre.
Io stesso ascolto di quando in quando canzonette. Ve ne sono di piacevoli e di sentimento. Ma non mi pare perciò di poter discettare di un destino storico di cui, io e le canzonette, saremmo un infallibile oracolo, come fa Albione… Sarebbe bastato accontentarsi di organizzare uno bello spettacolo, come pure era quello di ieri a Londra, senza pretese di auto-incoronazioni senza senso di imperi chimerici e oramai svaniti nel nulla.
Ps: i più grandi musicisti inglesi di sempre: Johann Christian Bach; Georg Friedrich Händel; Josef Haydn. Tutti tedeschi.