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Mario Luzi - Bureau

Lo vedo, appena oltre la soglia, in piedi al suo posto,
piegato sul suo banco, indifferente
alla febbre smorzata che agita
quella luce d'acquario e di falso tempio
e ne sono oscuramente respinto e attratto.
Intanto rialza sulla sua fatica il viso
e col viso uno sguardo di malato o d'ebete svuotato e bianco.
Ravvisarlo no, ma a una fitta improvvisa so che non è estraneo
al mio passato e mentre lui mi fissa
lo vo cercando non tra le amicizie,
tra i rancori sordi e inesplicabili dell'età più candida.
«Come mai qui?» mi chiede lui
calcando le parole più del giusto,
a meno non sia io già troppo amaro e ispido.
Forse non è che un vuoto intercalare d'uomo spremuto
d'ogni linfa e affranto
e mi basta a ravvivare
la ruggine impalpabile che fu tra noi in altro tempo poco
dopo l'infanzia.
Lo guardo senza rispondere in quel giro di scansie e di carte
 
e mi chiedo se quello è il suo reame
o il carcere che l'ha avvilito e spento.
«Come leggere un destino in un volto a tal punto
inespressivo»
mi dico, mentre cade di colpo il mio malanimo
e anzi desidero mi parli ancora, magari a lungo.
Così taccio davanti a lui che aspetta
aspettando a mia volta e intanto penso
se non ci sia in questo viso a viso
qualcosa non dovuto al caso soltanto
per un debito da estinguere con una età non morta
sia pur essa lontana o perché un oscuro fine s'adempia.
«La ragazza cadde in tuo potere, ma non ebbe a
gloriarsene
a quanto ne so io» grandina sul mio volto
la sua voce piagnucolosa e assente
non senza forza di nuocere, animando
d'un ghigno o d'un sorriso quella maschera assai peggio
del pianto.
«Oh non andò come tu credi» rispondo
e frattanto rivedo il dove e il quando
e in un preciso angolo il suo aspetto già allora di tarma.
Non penso a difendermi, penso al nodo
di quella sofferenza rimasto fermo
e serrato in un punto della sua vita, senza riscatto.
«Conosco i tipi come te. Sacrificano
se stessi e il loro prossimo, accecati da una presunzione di arte.
Nemmeno ti passa per la mente quel che si perde, alle volte.»
E dopo un po' riprende: «Era la mia salvezza e anche la sua»
e acuisce lo sguardo di quel tanto
che affiorano infine due pupille
fissate su di me da quel bianco.
«Chi può dirlo» ardisco non trovando altra parola
che ci accomuni nell'oscuro senso
del bene e del male ricevuti e fatti.
Ma non è uomo da venirmi incontro
su questo punto che dovrebbe unirci
come compagni esperti del dolore del mondo.
Lo vedo chiuso nella propria offesa serrare i denti
e non so se recrimina o se cova
così la forza di sfidare il suo inferno.
Il silenzio che segue nella stanza
dove non siamo soli, eppure deserta,
è un silenzio enorme, senza confini né tempo,
mentre l'elica del ventilatore ronza
e ruota con un fremito di carte smosse
e io penso alla lotta per la vita nei fondali marini e al plancton.
 
«Non sono ancora finito» esplode poi
con occhi stralunati
fiatandomi nel viso il suo respiro forte di tabacco e d'alcool.
 
«Non pià di me, non più di chiunque altro»
mormoro risucchiato dalla sua vampa
e guardo di là dai vetri la calca
in cui tra poco sarò scomparso.
 
 

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