The Cure - "Three Imaginary Boys" (terza parte) | Recensioni | Massimiliano | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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The Cure - "Three Imaginary Boys" (terza parte)

Ma, si diceva, l’album contiene anche i prodromi dei Cure a venire, e l’intuizione di Smith è di quelle che risultano essere tanto improbabili quanto vincenti: conquistare il mainstream con nenie malinconiche e funeree. Nel 1979, nessuno ci avrebbe scommesso; nel 1987 i Cure saranno sulla vetta dello stardom mondiale. A buon intenditor…
“Another Day” e “Three Imaginary Boys” sono, appunto, i brani che lasciano intravedere ciò che sarebbe accaduto appena un anno dopo. Nella seconda, come già in “10:15 Saturday Night”, Smith regala un minimale assolo pseudo-metal di ragguardevole intensità drammatica che già odora degli inquieti spiriti che, di lì a un paio d’anni, si manifesteranno in  Pornography.
Il resto dell’album si mantiene su buoni livelli, per quanto il vandalico reggae di “Meat Hook” e l’abominevole “So What” (riempitivo per antonomasia, al punto che Smith, rimasto senza testi, si vide costretto, per completare il brano, a recitare, quasi parola per parola, la pubblicità di una macchina per fare torte venduta in offerta per posta e a prezzi scontatissimi) rovinino, se così si può dire, la media; per non parlare dell’assurda, ridicola cover di “Foxy Lady”, prima e unica (per fortuna) canzone cantata da Dempsey. Un massacro, letteralmente.
Dal canto suo, “Subway Song,” posta a chiusura del primo lato, passerebbe simpaticamente senza lasciar traccia, tanto è inconsistente, non fosse che per quella trovata (diciamolo, pacchiana) dell’urlo improvviso a brano ormai sfumato, che risveglia dal torpore.
“Accuracy” è un altro piccolo gioiello minimal e “Fire In Cairo” è scintillante pop melodico, anche se la voce di Smith risulta spesso piatta e difetta di quel tono malinconico/depresso che diventerà tratto caratteristico e distintivo del suono-Cure.
I brani, mediamente buoni anche se spesso immaturi, richiamano alla mente lampioni notturni, uggiose giornate autunnali e trench grigi, e consegnano l’opera – non più punk e non ancora gothic –  agli annali dei classici new wave/post-punk. Le idee sulla strada da seguire sono ancora vaghe, ma nel complesso il tutto è ben sostenuto da una discreta varietà e da un approccio sincero e genuino, anche se ancora naif.  L’entusiasmo, la spontaneità e la freschezza dell’attitudine minimal permettono di sorvolare su una struttura ancora fragile, grazie anche a una spigliatezza pop magnetica e irresistibile.
Michael Dempsey, dimenticato primo bassista della band, traccia splendide linee di basso che si intrecciano perfettamente alle strutture ritmiche saltellanti e, per la verità, un po’ sconnesse di Lol Tolhurst (non certo un virtuoso della batteria). Si ha l’impressione che qui e là i testi – piuttosto acerbi – siano solo dei “pretesti” per la musica; ma quando funzionano ci regalano perle di pop malinconico e decadente.
Più che di genio, brilla di intelligenza, questo primo passo che, all’epoca, era parso a dir poco enigmatico.
 
L’album era stato anticipato, nel dicembre del 1978, dal singolo d’esordio, “Killing An Arab”, pubblicato su Small Wander (minuscola etichetta su cui Parry si appoggiò per la pubblicazione in attesa di essere pronto con la sua Fiction), capolavoro post-punk nel quale le inflessioni orientaleggianti della chitarra raggiungono vette espressive inaudite, che probabilmente non hanno paragoni in ambito pop. È un gioiello grezzo e folgorante (e infatti dura poco più di due minuti), che, manco a dirsi, scatenerà un piccolo putiferio “razziale” a causa del titolo. Il brano (che nulla ha a che vedere col razzismo) è basato su Lo Straniero di A. Camus, uno dei capisaldi dell’esistenzialismo europeo, dove l’autore narra di un uomo che uccide, a sangue freddo e senza motivo, un arabo sulla spiaggia.
La scelta di non inserire negli album i brani editi su singolo, in questa primissima fase della carriera, è indicativa di quanto Smith fosse attento sia sotto il profilo squisitamente commerciale che sotto quello artistico. Da un lato, infatti, se “Killing An Arab” non avrebbe sfigurato, e, anzi, avrebbe potuto benissimo essere inserita al posto di qualche brano minore di Three Imaginary Boys, alzando addirittura la caratura dell’album, “Boys Don’t Cry,” il secondo 45 giri dei Cure, poteva risultare leggermente stridente rispetto al tono generale del disco.
La canzone è una gemma scintillante di purissimo e quintessenziale pop: in un mondo perfetto – parole di Smith – avrebbe raggiunto la vetta di tutte le classifiche del globo terracqueo. Scanzonata, malinconica, auto-ironica, orecchiabile, cantabile, dolce, lieve: “Boys Don’t Cry” è, per farla breve, una delizia. Commercialmente fu una cocente delusione, al punto che Smith, non riuscendo a digerire il rospo, si “vendicherà”, ricantandola ex-novo e ripubblicandola nel 1986, a ridosso dell’uscita di Standing On The Beach – The Singles. E questa volta  fu un successo col botto.
 

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