Scritto da © Hjeronimus - Mer, 20/06/2012 - 21:34
La vita si articola su due piani, è cosa nota, un Interno ed un Esterno. Sul piano interno essa consta di un viaggio interiore, sempre e intieramente svolto su filo di rasoio, come la corsa pericolosa di un funambolo sul laccio tirato sopra l’abisso. Tuttavia questo è quello vero, il vero agone in cui la vita, la nostra vita è messa in gioco e scopre le carte di cui dispone onde insignirsi di un significato, di un senso che la trascenda. Ma su tale “sensata” entità incombe il “rumore” dell’altro, ci si interseca il piano cartesiano dell’estetica, della vita fuori dal sé, che accampa diritti più tellurici, più venali, ma non di meno radicali e incontrovertibili. Per il che diviene impossibile, ripeto: impossibile, invertire o sovvertire l’ordine delle compensazioni: quando si compensa una qualche carenza di ordine spirituale con “ricompense” materiali si ha la compulsione, come quando si entra come matti in un supermarket per comprare tutto ciò che a nulla serve. Vale anche a rovescio: il sesso non si sublima con alcuna fuga dal sesso e chi si gratifica con surrogati pseudo-spirituali non fa che alimentare il proprio assillo, il martello della pulsione che batte all’unisono del respiro e cerca senza requie l’unica cosa che può concedergliela: il rapporto.
Già, ma il rapporto è figlio del desiderio, e il desiderio implica nuove ingarbugliate considerazioni. Il desiderio che sorge dal corpo e che quindi si impernia su un altro, non sul proprio stesso corpo. Così, il mio corpo, che percepisco come unità del mio essere, come unità appunto di corpo e anima, esprime un desiderio ineludibile, il cui oggetto è altro dal mio corpo. Ergo, un altro corpo è oggetto di tale implacabile brama. Già, solo che questo oggetto, questo fine, questo scopo del mio corpo non è un oggetto: è a sua volta qualcos’altro di affine al mio stesso impulso, è una alterità che oggettiva in me, nel mio corpo materiale la medesima indomita spinta generata in me dal suo. Siamo oggetti reciproci di un interesse che tuttavia è al nostro interno dato come spirituale e nel rapportarsi è invece creaturale, fisico, e vorace.
Dunque l’altro non è un oggetto, contiene un’anima, tale e quale come l’io-soggetto. Cosa vuole allora davvero qualcuno che vuole amare (ossia “possedere”, come alcuni dicono) qualcun altro? E in che rapporto è il suo soggetto interno rispetto a tale incarnare l’oggetto esterno del desiderio altrui? E come è, come sente l’oggettività dentro di sé? Per comprendere bene questa domanda e magari balbettare una risposta, tornerà forse utile la seguente considerazione: che noi non teniamo mai abbastanza nel debito conto il corpo materiale che ci portiamo appresso. Esso è onnipresente, con tutti i suoi organi e componenti. Cose come lo stomaco, e quindi la digestione, o il sangue e la circolazione, o gli intestini e la deiezione, sono sempre cogenti nel nostro esser qui e ora. Tanto più lo è il sesso con le sue parti erogene e quelle più occulte. Noi abbiamo sempre addosso il sesso, e quindi la “spinta” che ingenera nei nostri gangli. È lui “l’oscuro oggetto del desiderio”…
Ma appunto: io sono un soggetto e sono un soggetto “fatto”. In quanto tale, sono “oggettivato” da membra, le quali si sintonizzano costantemente con altre membra di altri soggetti. La conseguenza è che il solo desiderare le sole membra, escludendone a priori il soggetto portatore, è un assurdo: non si può desiderare la sola conseguenza, senza la causa. Sarebbe come invitare a cena soltanto lo stomaco dei nostri ospiti.
Quindi il rapporto del desiderio rispetto al proprio oggetto è sempre rivolto al solo lato interno di tale oggetto, cioè al soggetto. Anche quando l’apparenza fa sembrare, nel caso dei più miseri di noi, che si sia interessati al solo apparire, appunto, esterno. La donna-oggetto non esiste.
Già, ma il rapporto è figlio del desiderio, e il desiderio implica nuove ingarbugliate considerazioni. Il desiderio che sorge dal corpo e che quindi si impernia su un altro, non sul proprio stesso corpo. Così, il mio corpo, che percepisco come unità del mio essere, come unità appunto di corpo e anima, esprime un desiderio ineludibile, il cui oggetto è altro dal mio corpo. Ergo, un altro corpo è oggetto di tale implacabile brama. Già, solo che questo oggetto, questo fine, questo scopo del mio corpo non è un oggetto: è a sua volta qualcos’altro di affine al mio stesso impulso, è una alterità che oggettiva in me, nel mio corpo materiale la medesima indomita spinta generata in me dal suo. Siamo oggetti reciproci di un interesse che tuttavia è al nostro interno dato come spirituale e nel rapportarsi è invece creaturale, fisico, e vorace.
Dunque l’altro non è un oggetto, contiene un’anima, tale e quale come l’io-soggetto. Cosa vuole allora davvero qualcuno che vuole amare (ossia “possedere”, come alcuni dicono) qualcun altro? E in che rapporto è il suo soggetto interno rispetto a tale incarnare l’oggetto esterno del desiderio altrui? E come è, come sente l’oggettività dentro di sé? Per comprendere bene questa domanda e magari balbettare una risposta, tornerà forse utile la seguente considerazione: che noi non teniamo mai abbastanza nel debito conto il corpo materiale che ci portiamo appresso. Esso è onnipresente, con tutti i suoi organi e componenti. Cose come lo stomaco, e quindi la digestione, o il sangue e la circolazione, o gli intestini e la deiezione, sono sempre cogenti nel nostro esser qui e ora. Tanto più lo è il sesso con le sue parti erogene e quelle più occulte. Noi abbiamo sempre addosso il sesso, e quindi la “spinta” che ingenera nei nostri gangli. È lui “l’oscuro oggetto del desiderio”…
Ma appunto: io sono un soggetto e sono un soggetto “fatto”. In quanto tale, sono “oggettivato” da membra, le quali si sintonizzano costantemente con altre membra di altri soggetti. La conseguenza è che il solo desiderare le sole membra, escludendone a priori il soggetto portatore, è un assurdo: non si può desiderare la sola conseguenza, senza la causa. Sarebbe come invitare a cena soltanto lo stomaco dei nostri ospiti.
Quindi il rapporto del desiderio rispetto al proprio oggetto è sempre rivolto al solo lato interno di tale oggetto, cioè al soggetto. Anche quando l’apparenza fa sembrare, nel caso dei più miseri di noi, che si sia interessati al solo apparire, appunto, esterno. La donna-oggetto non esiste.
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