La causa del controverso essere io, nasce per via del giunco che mi affardella e mi fa essere quello che sono. Ammollato e ritorto perché s’adatti alla bisogna, radica nell’Etna maschile e nel Falterona femminile: l’una, terra ballerina di vecchi e nuovi terremoti, d’esotismo orientale e normanno adornata e l’altra, tosca d’etrusche colline mammellari, da teorie di cipressi disegnate, vigneti e cibi nobili, tradizione d’arte di pittare e costruzioni d’eccellenza. Sicchè ottime premesse per figliare discendenti ben destinati. Ma non va quasi mai così, nella vita. La guerra si frappose tra sogni e realtà, trascinandoci nel sopravvivente giornaliero mondo di esserci. Si viene su così, tra distrazioni e bisogni, accettazioni dolenti di sradicamenti continui tra le province italiane, necessitati dalla professione di lui, legata alle armi. Vincolo che mai servì a farmi crescere, mi protesse è vero in tempi bui, ma in altri altrettanto perigliosi, mi espose ad esperienze che mi hanno ferito. La guerra lo rapì lasciandoci in balia del marasma, noi inadatti al combattimento sociale, corpo a corpo, seppure necessario per tirare avanti. Ci aiutò il riserbo la solidità di Lei, inesperta ma religiosamente determinata a salvare la covata, coi quali siamo arrivati, senza drammatici rischi, sino al ritorno dalla di lui prigionia. Nell’immediato fu festa grande: una montagna di spaghetti, vino rosso, pane bianco e poi in visita ad amici e no, che ormai era finita.
M’inorgogliosiva passeggiargli accanto, lui militarmente paludato e delle patite sofferenze di guerra decorato. Ferite sulla carne e nell’anima: scheletrico il corpo, l’occhio opaco, il sorriso mesto. Coglievo gli sguardi, i cenni di rispetto di ossequio di concittadini ammirati, solidali. Io bambino timido introverso, con gli adulti e coetanei, vivevo quest’aria come rivalsa per la mia incerta caratterizzazione e mi assolveva dalla soggezione. Così mi appariva più alto, imponente, di quanto la domesticità, non avesse prima palesato. Forte, scampato a quello che per i più fu morte, lo circondava un’aura di palese preminenza. Tuttavia, ogni tanto, dal profondo dell’anima mia, quasi inconscia una persistente larvata nota di riprensione per lui, sciupava a me, la riacquistata felicità. L’assillo di quella volta, quando una notte di tenebra eppur lucida come una lama affilata, gli alieni, a tarda ora bussarono alla porta, chiedendo il passo in idioma gutturale. Mamma voleva tenerci a letto, ma fummo presenti vidi e sentii : il terrore spiritato degli occhi di lui sbarrati, vitrei, mentre pallido e sgomento ci carezzava dolcemente, tentando frasi di premura rassicuranti; le lacrime trattenute a stento, quando il tedesco lo ghermì, portandolo via tra loro, a capo chino, come vittima sacrificale indifesa, senza anima. Roteava gli occhi per la stanza come volesse imprimersela nella mente, insieme a noi, un’ultima volta. Il panico su tutto, ferì per quella sconfitta, mai accettata. Un urlo avrei voluto sentire, ribelle violento, combattivo, e lui roteare i pugni, come mi chiedeva d’essere e fare, in occasione delle mie poche dispute infantili. Non si poteva fare, allora, non capii il perché, non accettai la sua resa che mi ferì molto, più di uno sbaraglio mio. E un sapido rancore sedimentò, per anni in fondo al mio spirito tal che gli attribuisco molto delle mie insicurezze e pusillanimità adolescenziali, insicurezze incertezze venture. Fu necessaria? Quando l’ha poi spiegata, ammantata di drammatica opportunità, era tempo lontano dagli avvenimenti e nessuno aveva voglia di recriminare. Noi famiglia eravamo la posta, ha sacrificato un possibile alloro, alla possibilità di poterci condurre ancora verso l’àzimut. Cosicché per tanto tempo, io studente carente, lui reduce stranito dal nuovo, guardandoci avevamo lo stesso sorriso di compatimento (*): lui per l’avvenire mio incerto, io per l’inadeguatezza dei suoi motti. Le incertezze ancora non sopite, le preoccupazioni di sopravvivenza, la strada sempre buona o cattiva maestra, si occuparono della mia lacunosa formazione. Di solitarie esplorazioni, per altri versi rischiose, solo apparentemente intrepide, che il cuore mi squassava il petto, alla ricerca di un limite soddisfacente. Appresi così che è la solitudine, l’unica tempra davvero utile per crescere nella privata ricerca del proprio sé. La condizione veramente imprescindibile per compiere le scelte esiziali. Dimenticare è stato bello. Ha perdonato certo la mia giovanile incomprensione, la mancata compassione di allora. Accetterà ch’io possa essere la sua lapide, mentre attendo la rivincita su me e intonare, finalmente, il mio peana in suo onore.
* citaz. da I. Svevo.
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