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Noi che faremo l'approdo

       2. Devi riposare

 
Shabine, curioso, quel che vede spiega. E’ il fisico di bordo,
non voleva lasciarmi solo. Nelle sue sinapsi una conoscenza
inesauribile, più che sapere snocciola invenzioni,
giustifica il peso delle tempie. Noi siamo diversi
per lingua e colpe, dai padri dei padri, dalle radici
perse: siamo efficienza indotta, materia in accelerazione.
 
A guardare i file degli archivi, il primo seme non
annunciava questo fiore. Siamo steli, come ho visto
essere gli ultimi girasoli; alti il doppio dei precedenti:
tendini filiformi, inutilizzati, cranio due volte maggiore,
glabro, viso sottile, occhi liberati dalle delusioni.
 
In ogni canone espressivo, mutato dal calendario
giorno per giorno, evo per evo, comunque il rapporto aureo
viene mantenuto nell'innovazione morfologica, con l'adattamento
dell'equilibrio nell'elica vitale: questo è il nuovo
e non c’è altro di più bello nel cosmo conosciuto che
l’immagine che ho di te, fragile luogo dei miei sensi.
Pena che ho divelto al principio del porto, sulla rampa
del sogno, nell’escamotage del saluto piagato
dalla sponda ignifuga del dovere. Poi il vascello, la Flight
che diventa pulviscolo atomico, senza riferimento
altro che un nome scomparso. Il suo primo secondo
già tutta la tua vita, cento equinozi in solo battito.
 
Il tempo, la sua misura defraudata dal viaggio, racconta
di albe delegate a fragile stupore, a rincorsa che scala
le opzioni del risveglio e sceglie la più ampia bracciata
della scoperta; il tuo motore di carne che aggredisce
il mio delirio, questa testimonianza che l’amore non
ci abbandona se pure il corpo manca e il tuo corpo
qui ed ora, è uno scavo imperterrito, una fragranza
a memoria.
 
Shabine, il fisico, la mente esemplare, ha lasciato
una lacrima sul tavolo, come rotta del sonno
che ha iniziato a sondare.  
 

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