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Nemmeno il vento

«Dove sei?»
«Sono qui, vicino a te.»
«Non mi lasciare. Stai qui.»
«No, non ti lascio, non ti preoccupare...»
 
La giornata era cominciata male e non poteva essere diversamente. Lucia si era svegliata presto, per colpa dell'afa. Un'aria densa, pesante, in cui aveva mosso i primi passi del mattino a fatica, cercando di far piano per non svegliare Paolo, che dormiva accanto a lei. Beato lui, pareva immune dai cambiamenti climatici che ormai avevano trasformato il clima di Roma in quello di una zona tropicale, il caldo intenso ed umido che si alternava a temporali rovinosi. Scomparse le splendide primavere e le ottobrate che l'avevano resa famosa, la città ronzava quasi di continuo del rumore dei condizionatori e dei deumidificatori che lottavano per mantenere accettabili le temperature all'interno delle case. Quella notte, però, il sovraccarico aveva, per l'ennesima volta, fatto saltare la rete elettrica e Lucia si era risvegliata boccheggiante e sudata che non era ancora l'alba.
 
Era un po' di tempo che dormiva male, in realtà, ed era chiaro il perché. Lucia aspettava un bambino. Quando aveva fatto il test e per la prima volta quella parola, bambino, era stata pronunciata, era impazzita di gioia. Paolo l'aveva abbracciata stretta, e avevano riso insieme in una danza improvvisata nello studio del ginecologo, che li guardava divertito. Erano usciti tenendosi per mano e neanche avevano sentito la pioggia scrosciante, calda, che si abbatteva su di loro, troppo presi da quel sogno. Avevano dato vita a un nuovo essere. I piedi piccolini, le manine che si stringevano intorno a un loro dito, i balbettii, la boccuccia protesa a cercare il seno. Già lo vedevano, vedevano tutto, ed erano felici.
 
Il giorno dopo, il primo ciclone tropicale si abbatté su Roma, causando alcune vittime e ingenti danni. Lucia era fuori per lavoro e tornò sconvolta da quello che aveva visto. Nei giorni successivi, non si fece che parlare del riscaldamento globale. Quelli che ancora negavano il fenomeno, che già aveva causato esodi di massa da alcune isole tropicali e dalle zone costiere di molti paesi asiatici, erano ormai pochissimi. Gli esperti tracciavano scenari catastrofici, mentre i politici continuavano ad usare il tempo futuro: «faremo... provvederemo... istituiremo...». La giovane coppia ascoltava attonita e impotente le previsioni. Pensavano con angoscia al mondo che si preparava per la creatura che aspettavano. Fino a che, un paio di settimane fa, Paolo non aveva detto quelle parole. «Lucia, ma siamo sicuri....» Lei non aveva nemmeno aspettato che lui finisse di parlare. Sapeva benissimo cosa voleva dire, perché quel pensiero l'aveva avuto anche lei più volte, ma non aveva lasciato che affiorasse alla coscienza, lasciandolo lì, ad avvelenarle le notti.
 
Far nascere un bambino in questo mondo marcio... Valeva la pena? Sarebbe stato un profugo, affamato, impoverito? Quale futuro gli si prospettava? A poco a poco, queste domande avevano scavato un baratro nella loro gioia. Non riuscivano più a progettare niente. Fino a che non avevano deciso, e quello era il giorno. Il giorno dell'aborto.
 
Quando Paolo si svegliò, non si baciarono come facevano sempre. Solo un abbraccio, lungo, disperato. E adesso lei era lì, in quella stanza luminosa e asettica. Aspettava che la portassero dentro e poi tutto sarebbe finito. Tutto sarebbe finito...
 
«Dove sei?»
«Sono qui, vicino a te.»
«Non mi lasciare. Stai qui.»
«No, non ti lascio, non ti preoccupare...»
 
Lucia girò il viso, per non vedere il volto di Paolo, lo sguardo triste, le labbra contratte.  Era insopportabile rivedere in lui il suo stesso dolore. Cosa ne sarebbe stato di loro, dopo? La grande finestra della stanza dava sul piccolo giardino della clinica. La pioggia aveva ripreso a cadere ed evaporando sull'asfalto bollente dei vialetti creava strani effetti, spandendo i colori dei pochi fiori rimasti come in un acquarello. Vide uno strano brillio giallo e aguzzando gli occhi notò una gatta che si riparava sotto uno di quei lampioncini a fungo che si usano nei giardini.
 
Era una gatta di razza indefinita, un po' macilenta. Lucia notò che leccava qualcosa, ma non vedeva cosa. Fino a che il cucciolo non sgusciò tra le gambe della micia. Un cosino minuscolo, che annusava curioso il terreno intorno. La madre gli diede un buffetto con la zampa per evitare che si allontanasse troppo e lui nel tentativo di rigirarsi cadde buffamente, iniziando subito dopo a giocare col suo codino. Lucia, per la prima volta da giorni, sorrise.
 
«Sai, ho sentito che l'università di Vancouver avrebbe un modello in base al quale lo scioglimento dei ghiacciai sarebbe più lento del previsto...,» disse Paolo proprio in quel momento. «Davvero?» «Sì, Lucia, davvero.» «Anch'io ho letto qualcosa in rete... l'IPCC(*) avrebbe ricalcolato l'effetto dell'innalzamento della temperatura e non sarebbe così catastrofico come si pensava.» Una lunga pausa e poi: «Cosa stiamo facendo, Paolo? Cosa stiamo facendo?» Lui le prese la mano e la strinse con forza. «Lucia, andiamo via di qui, andiamo via...»
 
Uscirono abbracciati, aggrappati l'uno all'altra. Nemmeno il vento che aveva ripreso a soffiare furioso sarebbe riuscito ad allontanarli.
 
 
 
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(*) L'Intergovernmental Panel on Climate Change (Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico [1], IPCC) è il foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l'Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ed il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP) allo scopo di studiare il riscaldamento globale. Il 12 ottobre 2007 l'organizzazione ha vinto il Premio Nobel per la pace con Al Gore per l'impegno nel diffondere la conoscenza sui cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento globale (da Wikipedia).
 
 

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