L’occhio della conclusione perseguita nelle notti del ghiaccio e della luna. Ho giocato troppe volte al gioco della magia ed oggi ne pago le conseguenze. Grande come un globo di oscurità e minaccioso come un masso di fuoco si presenta dalle retrovie di una pazzia manifestatasi nei tempi della palpitante giovinezza. Avevo trovato nei tuoi occhi e nei filtri delle combinazioni dei liquori la migliore soluzione alle ansie e ai terrori dei giorni. Una speranza per un futuro sempre privo dei fremiti delle distanze da coprire. E tu eri fatta di occhi limpidi e chiari, più leggeri dei miei, che erano nascosti dallo spessore delle lenti scure, a costruire un altro modo di vedere e di intendere il mondo. Eri fragile come l’emozione del primo giorno, ragazza giovane, non ancora donna, ma curiosa di donare le tue labbra alla bravura seduttiva di quel tipo, l’unico di tutti noi ad aver concepito una specie di disastro suo personale, ad uso di un suo modo di corteggiare ed ottenere la dovuta attenzione.
Distratta dalle sue carezze neanche ti accorgesti della solitaria follia di un amore nascente. La passione fu da me subito sedata, resa sterile ed impotente, immediatamente chiusa, a doppia e forse tripla mandata. Ne conobbi, però, la potenza nei giorni a venire. Assolutamente non doma prese la strada della immensa rivelazione. Si sciolse dai fermi legacci e divampò senza limiti, a dismisura. Scalpitante e guerriera mi invase e mi rese schiavo di un sogno. Ne seguii tutti i contorni aguzzi, ma senza sperare, perché il sogno è solo un sogno e bisogna negarsi ogni speranza di realizzazione. Così accadde che momento dopo momento la solitaria confusione si travestì da fervida considerazione e, senza conoscerne i termini, ci trovammo a vivere le nostre esaltanti estati roventi. Piano diventasti esclusività. Piano entrasti nel mio mondo, prendendone totale possesso, diventandone l’unico mondo. E seppi, per la prima vera volta, di cos’è fatto l’amore. Di quale sostanza e realtà. Ed è stata una fortuna saperlo, perché tutto lì ho trovato, imparando la grandiosità del passo dopo passo, tutti i gesti del viaggio, scoprendo il senso vero di quel qualcosa che ti unisce ad un altro essere. Ho imparato perfino la stupidità della sofferenza, che ti rende schiavo ma felice, pur nel dolore di qualcosa che ti viene privato. Quei baci che di colpo cessano, quelle carezze che ti si negano, quella pelle che si allontana, giorno dopo giorno, da te. Uno stato di malessere e benessere insieme, perché se non ci sei si soffre ma pure si sta bene al pensiero di quando vorrai donarmi la morbidezza delle tue labbra. Ho sempre calpestato le pietre di questa doppiezza di verità. Dolore e felicità, in un miscuglio come delle tempere del pittore d’astrazioni, la forza prepotente e prorompente di un sentire che esalta ed uccide allo stesso tempo. Ed è così che ho conosciuto la vera natura del viaggio. Una specie di crescita, la folgore di una conoscenza che ti arricchisce e nello stesso tempo ti stringe troppo forte il cuore. Ho saputo, perciò, che niente dura per sempre. Qualunque cosa sia, un oggetto o un sentimento, un pensiero, un palpito, uno scenario, tutto diventa decadente, nel tempo si corrompe, accoglie polveri e muffe, diventa altro. Così noi. Lo scrigno del sentire è diventato via via sempre meno lucente, si è sporcato di altre storie, di viltà e bugie, si è vestito di tradimento e contaminazione o forse semplicemente si è esaurito nell’energia e nel desiderio. Così uno qualsiasi tra le persone potrebbe pensare che la sofferenza è tale da distruggere. Niente è più lontano dalla verità. Si finisce perfino per tirare un sospiro di sollievo, perché si sente il ritorno alla pacatezza delle ore e dei minuti. Piano si riconquista lo spazio perduto. Lentamente si ritrovano le parole della poesia e della musica. Si ritorna alla solitudine, che tra tutte le strade del mondo, sento così piena di pensiero, così fortemente sicura, così meravigliosamente unica da portarti ovunque, senza distrazioni, senza discussioni, soprattutto senza delusioni.
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