Scritto da © Franca Figliolini - Ven, 27/04/2012 - 07:44
I nipoti a volte mi chiedono di raccontare la mia infanzia, cosa che io faccio con riluttanza, perché mi sembra di averne un'immagine indorata dagli anni, non davvero veritiera, eppure profondamente ancorata nella mia memoria...
Il problema della solitudine non si poneva mai. Eravamo miriadi di ragazzini, fratelli, cugini, amichetti, intere nidiate urlanti in scorribande alla scoperta del territorio fantastico della città, guerre di cartoccetti, nascondini, i marciapiedi pieni dei segni dei nostri giochi, campane, mondi e tutto il resto. Le scuole delle periferie stracolme, costrette a doppi o tripli turni dalla massa di gente che premeva sull'urbe, la riempiva all'inverosimile in palazzoni nati vecchi tra le sterpaglie, le baraccopoli, i lacerti del boom economico.
Leggende metropolitane orrende cercavano di limitare la nostra libertà: bambini mangiati dai topi nei cunicoli sotto al pratone, affogati nel fango delle marane, rubati dagli zingari, caduti in qualche trappola nei bunker tedeschi o nelle rovine romane, ma niente, niente ci dissuadeva dall'esplorare correre cercare. Armati di torce, boracce, coltellini a serramanico, borse a batticulo di stoffa pesante, partivamo come per una spedizione nella giungla, ore e ore a inseguire mondi fantastici nelle discariche vicino casa, nei prati incolti che ancora fiancheggiavano la città, nugoli di bambini come sciami di mosche.
Eravamo astronauti, cercatori d'oro, indiani metropolitani. Eravamo tutto, e tutti insieme. Nutriti dalle storie nei libri e dai racconti degli adulti, affacciati sul benessere, ma senza possederlo, sentivamo di fronte a noi la spinta della conoscenza, del salto sociale, del mondo che si apre e rigenera dopo una parentesi buia di morte. C'era l'urlo della vita, in quello sciamare continuo, quei giochi compresi in se stessi, che ci assorbivano completamente.
L'autorevolezza - o, più spesso, l'autoritarismo - degli adulti allora imperante si contrapponeva a questa sfrenatezza come in uno yin e jang all'amatriciana. L'uno temperava l'altro, in un modo difficile da spiegare, ma che, nei casi non patologici, ci consentiva di crescere liberi ma attenti alle esigenze altrui, sregolati ma cauti, non più felici, non più infelici: vivi.
Un'onda lunga, sulla quale planammo per un capriccio della storia, fino a che non si scontrò contro gli scogli.
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