Scritto da © Hjeronimus - Mar, 17/04/2012 - 21:35
Cos’è la vita? Niente, non si sa.
Da dove viene? Boh, mah, mistero.
Dove va a finire? Idem, non se ne sa un accidenti.
A cosa serve la vita? E qui casca l’asino. Verrebbe da dire: a niente. Essa serve solo a se stessa, alla perpetuazione del proprio modello. Del modello, non del soggetto: sembra che alla vita del singolo incarnato che la regge non gliene cali una zecca. Sembra che il soggetto serva solo alla riproduzione, cioè alla perpetuazione della specie. Alla Natura non gliene frega una mazza dell’io singolo, incarnato qui e ora: le interessa soltanto il modello, come dire?, lo “stampo”, l’archetipo creaturale in grado di continuare il tour che ha inaugurato la sua propria apparizione sull’orizzonte di ciò che è. Noi, in quanto noi, non serviamo niente alla vita e la nostra vita, in tal senso, non serve a niente. C’è un’obiezione però. E ora la opineremo.
È che la domanda a cosa serve la vita serve al querelante, non all’imputata. La vita non domanda. La domanda della utilità, della finalità, degli scopi ultimi della vita pertiene all’essere, e l’essere non è la vita. Certo, non c’è essere dove non è vita e affinché quello sia deve essere preceduto da questa. Ma questa stessa è detta soltanto da quello. E in quell’atto nominale, in quell’essere principio del verbo, lì la vita diviene essere. Ed è questo, alla sua volta, a interrogarsi teleologicamente, escatologicamente, finalisticamente. L’essere è il messaggero degli dèi, l’ermeneuta alla ricerca inesausta dei reperti indiziali della propria causa. È l’essere che usa la vita. La vita di per sé non usa nulla. Essa si nutre esclusivamente delle proprie forme, onde perpetuarle. Magari perfezionandole, magari puntando a prototipi pressoché definitivi, chissà… Ma il Verbo, che era in principio, non era già più qualcosa che in sé non serviva a niente, perché aveva già incominciato a servire trascendentalmente a sé, ossia a divenire l’ineluttabile auto-apoteosi di se stesso. E se noi rovesciassimo quella prima domanda, girandola così: a che serve l’essere- ecco che avremmo subito scongiurato il tacito nichilismo della prima formulazione, perché star lì a dire che l’essere non serve a niente… non serve proprio a niente.
Da dove viene? Boh, mah, mistero.
Dove va a finire? Idem, non se ne sa un accidenti.
A cosa serve la vita? E qui casca l’asino. Verrebbe da dire: a niente. Essa serve solo a se stessa, alla perpetuazione del proprio modello. Del modello, non del soggetto: sembra che alla vita del singolo incarnato che la regge non gliene cali una zecca. Sembra che il soggetto serva solo alla riproduzione, cioè alla perpetuazione della specie. Alla Natura non gliene frega una mazza dell’io singolo, incarnato qui e ora: le interessa soltanto il modello, come dire?, lo “stampo”, l’archetipo creaturale in grado di continuare il tour che ha inaugurato la sua propria apparizione sull’orizzonte di ciò che è. Noi, in quanto noi, non serviamo niente alla vita e la nostra vita, in tal senso, non serve a niente. C’è un’obiezione però. E ora la opineremo.
È che la domanda a cosa serve la vita serve al querelante, non all’imputata. La vita non domanda. La domanda della utilità, della finalità, degli scopi ultimi della vita pertiene all’essere, e l’essere non è la vita. Certo, non c’è essere dove non è vita e affinché quello sia deve essere preceduto da questa. Ma questa stessa è detta soltanto da quello. E in quell’atto nominale, in quell’essere principio del verbo, lì la vita diviene essere. Ed è questo, alla sua volta, a interrogarsi teleologicamente, escatologicamente, finalisticamente. L’essere è il messaggero degli dèi, l’ermeneuta alla ricerca inesausta dei reperti indiziali della propria causa. È l’essere che usa la vita. La vita di per sé non usa nulla. Essa si nutre esclusivamente delle proprie forme, onde perpetuarle. Magari perfezionandole, magari puntando a prototipi pressoché definitivi, chissà… Ma il Verbo, che era in principio, non era già più qualcosa che in sé non serviva a niente, perché aveva già incominciato a servire trascendentalmente a sé, ossia a divenire l’ineluttabile auto-apoteosi di se stesso. E se noi rovesciassimo quella prima domanda, girandola così: a che serve l’essere- ecco che avremmo subito scongiurato il tacito nichilismo della prima formulazione, perché star lì a dire che l’essere non serve a niente… non serve proprio a niente.
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