Scritto da © Stefania Stravato - Lun, 05/03/2012 - 13:16
Le sue mani la cercarono, furia distesa nell'ombra di un sogno che troppe stelle cadute avevano macchiato.
Le soffiò piano sulle labbra dipinte con il graffio di uno spino scarlatto, succhiando uno ad uno i cristalli di nero antico, che segnavano la regalità del dolore.
Colse lembi di mari e sottili frescure da poggiare sulla fragilità delle sue spalle, cingendole il fiato di mille glicini vergini, a ghirlande lievi, di baci, per nutrire il silenzio di quei laghi millennari che si stendevano nei suoi occhi.
Seguì le linee della luna chiara e tremante del suo ventre che lo richiamava nello stupore di un eterno plenilunio.
Ignorò il tempo che scolpiva chiocciole di ghiaccio nel nero, fino a raggiungere il migliore degli azzurri e si inginocchiò a scavare solchi, sul bruno della terra, colmandoli di un unico splendore, che traboccava in fioriture di luce.
Scivolarono insieme, gocce fuse in un'unico palpito che irrorava il muschio della notte, danzando tra rune che svelavano l'arcano dell'amore e si fermarono a guardare le lontananze, sulle guglie di cattedrali, cesellate nell'avorio di cirri, che svettavano altissime nel sortilegio
di quel loro dominio.
E fu quello il tempo che li avvolse e il sole non sciolse, a sera, il suo pianto a svanire di sangue l'orizzonte, fu quello il tempo delle onde che cantarono sommesse il sublime e tutti i più lontani argenti, che ornavano il mistero delle galassie.
Fu quello il tempo senza tempo che li scelse a testimoni dell'immenso.
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