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Maria

Erano arrivati ai settant'anni, per essere precisi lei settantuno e il suo Attilio settantacinque.

Maria aveva continuato, dopo essere stata messa in pensione, a dare ripetizioni di italiano a qualche svogliato studente delle medie; era stata maestra alle elementari per quarantacinque anni.

Attilio, ex colonnello nel Genio dell'esercito, l'aiutava in questa attività dando agli stessi ragazzi lezioni di matematica. La coppia non aveva figli.

Arrotondando in tal modo le già laute, per l'epoca, pensioni, s'erano decisi a comprare circa duemila metri nella nuova lottizzazione che il Comune aveva appena approvato e costruirvi una villetta.

Dopo l'acquisto del lotto chiamarono il geometra del Comune, che altri nel paese non ve ne erano, tra l'altro era stato uno scolaro, diligente e serio fin da allora, di Maria, e insieme a lui disegnarono il progetto di questa nuova casa.

Appena gettate le fondamenta scoppiò la seconda guerra, così dovettero sospendere i lavori.

Li ripresero appena finita, nel giugno del '45, trovando alquante difficoltà perché Maria fin da subito si era iscritta al Fascio ed ora i venti erano cambiati.

Nonostante ciò Attilio riuscì a trovare il figlio di un suo commilitone originario di Faenza, anch'esso ufficiale del Genio, che s'era messo nell'edilizia, e conoscendo l'onestà della famiglia, affidarono a questi l'appalto.

Attilio s'ebbe il primo infarto il giorno antecedente la copertura del tetto, ma era di tempra fisica eccezionale. Sul letto dell'Ospedale rassicurò la sua Maria che ce l'avrebbe fatta e Maria, tornata al paese dopo tre nottate di pianto ininterrotto nei corridoi, disse ai muratori di continuare.

<Alta, diritta, sempre ben tenuta, senza eleganterie, magari uno scialle o un foulard al collo, un filo di profumo, lo sai, vestita quasi sempre di nero, bisognava vederla anche in quell'inizio d'estate le poche volte che uscivano in paese per una passeggiata su nel viale dei gelsomini>, stava dicendo mia madre rivolta all'amica.

<Vabbè, però aspetta che guarisca, che si rimetta dalla convalescenza>, aveva risposto questa che dal paese se ne era andata anni e anni prima dei fatti, e voleva essere messa al corrente di quanto fosse nel frattempo successo.

<Ma l'avrà anche fatto, cosa so, l'avrà fatto, ma sai cosa si diceva del Colonnello> e qui Yvonne attaccò l'orecchio alla bocca di mia madre ed io, che sedevo in cucina insieme a loro davanti alla tazzina di the al latte che odiavo e che mia madre invece considerava più elegante di quello al limone, potei solo percepire il fruscio dello scandalo.

<Eh, ma ne ha fatte delle altre>, intervenne a quel punto la mia nonna paterna, che fino ad allora aveva continuato a sferruzzare per il mio maglione. <Prima di morire>.

<Qualcosa ho sentito>, sorrise Yvonne.

<Daniele, vammi a prendere la matassa di lana bianca, in camera, nel cestino dei ferri>, si volse a me la nonna a quel punto.

Obbedii, tanto non me ne importava di sentirle.

Quella villa bianca, ora disabitata, che dava sul viale dei gelsomini, che il padre di un mio amico voleva acquistare a tutti i costi senza sapere a chi diavolo rivolgersi, l'avevamo, io e questi, scassinata proprio quell'inverno.

Nella vetrinetta di radica di quercia, nell'ovale argenteo della cornice, troneggiava, da sola, la fotografia a mezzo busto di un giovane biondo con i capelli tagliati a spazzola, in divisa, con gli alamari e grandi gradi sulle spalle. Accanto un pugnale in una guaina pure d'argento, tutta incisa e lavorata finemente.

<Sarà suo figlio o suo nipote, però bello 'sto pugnale>, esclamò Dino.

<Lascia stare, andiamocene>, ribattei io, che stavo accorto da quando questo amico mio m'aveva convinto che quel fienile in cima ad un cocuzzolo dove razzolavano una decina di galline ed erano depositate una trentina d'uova non facesse parte di alcuna fattoria.

<Ce le beviamo qui, quelle più calde, e una mezza dozzina a testa di quelle tiepide ce le mettiamo in tasca, che così poche non sbattono e non si rompono, anche se dobbiamo correre>, aveva insistito Dino.

Beh, il fattore, non so come, il giorno seguente si era fatto una decina di chilometri ed era arrivato in paese fino a casa mia per cui, da allora, nei confronti di Dino, qualunque cosa dicesse o volesse fare, m'ero imposto una certa riserva mentale.

<Lascia stare e andiamo via>, gli avevo ripetuto, ma lui no, testardo, prima aveva tolto la fotografia e guardato dietro. <Bagno di Romagna april 3.1945 - Polska Regiment-Lieutenant Vasilj Kovalczyk

 

 

Mi era venuta fretta, <andiamo>.

<Ma chi è questo?>

Dino, per il disappunto, aveva scostato la vetrinetta dal muro con uno scossone e sotto di essa era apparso il becco di una busta color ocra.

<La voglio leggere, poi andiamo via>.

E l'avevamo letta.

<Amore mio,

ringrazio il cielo che ha voluto che il Comando scegliesse la mia modesta dimora per queste poche settimane di permanenza nel nostro disastrato Paese>.

Alcune righe, una decina, non riuscimmo a leggerle; l'umidità le aveva cancellate. Poi, verso il fondo del foglio, esse ridiventarono leggibili.

< Averti accanto a me, nelle mie fredde notti dopo il lutto, quando tutto pareva essere crollato, sentire di nuovo riscaldata la solitudine di un così povero cuore, l'anima di una donna così diseredata da queste immani tragedie, è stata la più grande consolazione che la Vita potesse donarmi.

La tua presenza, gli sguardi, il fuoco che la mia fragilità vi ha potuto leggere hanno reso indifendibile la resistenza che avrei dovuto, fossi stata saggia, opporre ai tuoi impeti eroici.

La guerra non è stata quella appena terminata, bensì questa iniziata con te, dove ho perso e dato tutta me stessa, eppure felice.

Ti amo, ti amo, ti amo, oh amore mio come mancano i tuoi respiri, il tuo calore.

Per sempre tua, Maria.

P.S. Fammi sapere al più presto possibile, a mezzo cablo, dove sei stato trasferito. Mi serve l'indirizzo.

Ti amo :)

 

 

 

 

 

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