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Incarnazione.

Ognuno di noi è un essere incarnato, o l’incarnazione dell’essere. Facile, no? Non lo è più se prendiamo a parte e separatamente i due termini: il lato della incarnazione  è quello più evidente, più raggiungibile, e la sua promessa diventa di conseguenza apparentemente più succosa e succulenta. È perciò che la più sterminata maggioranza del genere umano ci si abbandona volentieri e ininterrottamente. È il lato della certezza sensibile, e donarsi al compiacimento di tali certezze è per lo più e massimamente il maggior appeal del privilegio di stare al mondo.
L’altro lato è l’essere. Questo si contrappone alla propria incarnazione non per l’opposizione semplice di termini in sé conflittuali: non v’è conflitto tra l’essere e la sua incarnazione. Semplicemente, quest’ultima si barcamena sul piano estetico della percezione sensibile; l’altro su quello etico del logos, il verbo, il linguaggio (l’Ethica di Spinoza; il dover-essere, l’a-priori di Kant, lo Spirito assoluto di Hegel). Questo stato etico di ciò che è, è la cosa che dentro l’incarnazione parla, altrimenti non si tratterebbe che di animali. Ecco il fulcro di tutto: la cosa che è, contro la cosa globale. Il subietto contro l’obietto.  
La spiegazione di tale eterea dicotomia è presto accordata: l’essere è il linguaggio (Il linguaggio è il Sé, diceva Hegel), è il verbo che parla dentro l’incarnazione, non questa per se stessa. La pulsione, il desiderio, la promessa, come dicevamo, del nostro essere-fatti non parla, non necessita di alcun verbo. Infatti è ciò che condividiamo con la totalità della vita animale, della vita tout-court. La fame, la libido, il freddo, eccetera, si condividono serenamente, spontaneamente con l’intero regno di ciò che vive. E dal lombrico, su su, fino al più nobile dei primati, non c’è alcun bisogno di parole per soddisfare le spinte di quelle modalità dell’incarnazione. Così, coloro che ci montano su tutta una deontologia del “come si deve vivere”, non si accorgono neanche dello sbandamento che inducono in se stessi così come ai propri vicini. Non si deve vivere per il tornaconto o per la soddisfazione. Un desiderio così espresso è fatalmente un desiderio intellettuale, la cui soddisfazione nel senso della sensibilità è una specie di tradimento. L’essere è soltanto il parlato, cercare di nutrirlo con le sole risorse della natura è fatica sprecata, come far brucare l’erba a un carnivoro. Per esempio, il piacere di chi si vanta delle proprie ricchezze, o delle proprie “tante” avventure di letto, è il piacere del vantarsi, non quello di spendere o di andare a letto in compagnia. 
Questo perché l’essere si svolge e si attua nel regno della parola, non in quello animale. Laonde, anche chi si pregia della propria fisicità, ricade ugualmente nell’ambito semiologico, fondando semplicemente concetti più elementari e retrivi, se vogliamo, di quelli propriamente intellettuali, ma non perciò astratti, o altrove, dal mondo parlato. Il quale ultimo, per quanto sta a noi, per quanto sta alla nostra misteriosa apparenza sulla faccia della Terra, è l’unico ad esistere. L’unico mondo possibile, fin dal principio e nei secoli dei secoli. 
 
 
 

  
    

 
 

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