Scritto da © Hjeronimus - Lun, 23/01/2012 - 19:59
Un lampo. Un baleno.
Da un inedito corridoio del nostro appartamento quasi preistorico, al quinto piano di un’enorme costruzione anni ’60, come un faro si mosse intorno a un’ombra. Che venne in qua, verso di me, ed era mio fratello, morto 5 anni orsono. Sembrava gigantesco, due metri e mezzo, e rideva sotto la sua chioma scura, giovane, mossa. Vestito di nero, con grandi stivali, somigliava più a me che a lui, quando eravamo ragazzi. Era appena possibile ravvisare in quel gigante dal sorriso ingiustificato, le fattezze del vecchio alcolizzato che avevo visto giacere nella bara, aperta per l’ultimo addio. Ma era lui, e rideva di quel suo riso sconsiderato, anticamera dell’irresponsabilità, ove sempre si rifugiava non appena la pulce della coscienza osasse affacciarsi al suo orecchio recalcitrante.
Da un inedito corridoio del nostro appartamento quasi preistorico, al quinto piano di un’enorme costruzione anni ’60, come un faro si mosse intorno a un’ombra. Che venne in qua, verso di me, ed era mio fratello, morto 5 anni orsono. Sembrava gigantesco, due metri e mezzo, e rideva sotto la sua chioma scura, giovane, mossa. Vestito di nero, con grandi stivali, somigliava più a me che a lui, quando eravamo ragazzi. Era appena possibile ravvisare in quel gigante dal sorriso ingiustificato, le fattezze del vecchio alcolizzato che avevo visto giacere nella bara, aperta per l’ultimo addio. Ma era lui, e rideva di quel suo riso sconsiderato, anticamera dell’irresponsabilità, ove sempre si rifugiava non appena la pulce della coscienza osasse affacciarsi al suo orecchio recalcitrante.
Perché non la voleva la coscienza, non voleva essere adulto, pur con tutto il corollario delle sue responsabilità, dei suoi cinquant’anni, i due figli, sua moglie... no, rideva soltanto, come un adolescente, come appariva appunto adesso, da quella sua smisurata altezza.
Intravidi dietro l’ombra che quel gigante proiettava alle sue spalle qualcosa sgusciare via, come lo sgambettare furbo e rapido di qualcun altro, che in più sibilò appena un rumore soffocato, come di un ghigno represso. Allora intesi la manfrina: a me, uomo laico fin nelle ultime fibre, non la si dà a bere. Il tiro era diretto a me, per incrinare il mio imperturbabile laicismo e farmi credere negli spiriti. E intesi anche da chi tale tiro avesse potuto venir architettato, cioè dalla figuretta retrostante. Così che infine gridai: Non m’incanti. Questa sceneggiata è impossibile. Non sei altro che la proiezione folle dell’altra crapa folle che ti sta dietro!
Mentre tra me e me mi rassicuravo sulla totale inammissibilità degli ”spiriti”, sulla inconsistenza, sulla indeterminabilità del concetto di “fantasma”. E il “fantasma”, appunto, sorrise ancora, come di chi è scoperto. E si girò nell’ombra, vicino all’altro, scoprendo sul muro un accecante fascio di luce caravaggesca. Che mi atterrì…
Mi svegliai. Considerai, nel terrore sbalordito dell’incubo, quanto poco rassicurante fosse stata la mia spiegazione. Cioè che il fantasma non fosse stato altro che la proiezione fantastica di chi gli stava dietro, perché, a parte la circostanza di che cosa fosse fatto l’ectoplasma del mio povero fratello morto, la questione era che il tizio che non si vedeva altri non era se non l’altro mio fratello, morto altrettanto e anche prima del primo…
In alto, sul soffitto percepii un alone grigio, più che buio, che mi fece ritenere che forse l’alba inneggiava già nei cieli. Mi voltai alla sveglia, che segnava dal suo quadrante fiocamente “acceso” le due meno un quarto. Sul momento quella rauca pulsione di luce, sul soffitto, s’abbassò di un grado, e di seguito si abbassò ancora, facendo risaltare nitidamente quelle due meno un quarto di una notte senza lune.
Così, succube ancora del disagio amaro e allarmante dell’apparizione, enumerai dei concetti di causa. E il primo proveniva proprio dalla sveglia, il cui tenue lume non di rado soccombeva a un qualche calo di tensione, offuscandosi e sussultando similmente all’evento cui avevo assistito. Poi mi dissi che si trattava magari dell’effetto sulla mia vista del risveglio improvviso, come m’avesse lasciato nell’occhio la scia del suo onirico faro. Già, anche se un tale effetto di attenuazione non s’era mai fissato a memoria d’uomo nella mia pupilla. Rammentai infine il quasi cieco gioco di reverberi, quando le automobili intersecavano coi loro fari la grata della mie persiane: un morendo di tenui nastri d’arancione che tramontavano di fretta. Tanto che allungai l’orecchio onde percepire un rombo di qualcosa che s’allontanasse… ma non c’era nulla dentro la tenebra muta e tranquilla di una notte anonima e di quell’ora remota e senza storia.
L’ultima, ostica spiegazione, quella che la mia atea ostinazione si rifiutava di prendere sul serio, volteggiava in incognito al di sopra della mia coscienza, come un avvoltoio inteso ad imbeccarmi. Perché era la sua inversione dialettica, il contrario di tale coscienza venuto a porsi in contraddittorio con la mia ostinazione logico-razionale. Un pazzo contrario che insinuò in quel lucore smorto e spettrale il sospetto di una essenza e di una trasfigurazione che dal falso onirico del sogno avessero tradotto nel reale la vera luce di vita dei miei infelici fratelli. Una luce di fantasmi, finalmente, venuta da chissà dove a rischiarare soltanto la nostra cieca disperazione.
Intravidi dietro l’ombra che quel gigante proiettava alle sue spalle qualcosa sgusciare via, come lo sgambettare furbo e rapido di qualcun altro, che in più sibilò appena un rumore soffocato, come di un ghigno represso. Allora intesi la manfrina: a me, uomo laico fin nelle ultime fibre, non la si dà a bere. Il tiro era diretto a me, per incrinare il mio imperturbabile laicismo e farmi credere negli spiriti. E intesi anche da chi tale tiro avesse potuto venir architettato, cioè dalla figuretta retrostante. Così che infine gridai: Non m’incanti. Questa sceneggiata è impossibile. Non sei altro che la proiezione folle dell’altra crapa folle che ti sta dietro!
Mentre tra me e me mi rassicuravo sulla totale inammissibilità degli ”spiriti”, sulla inconsistenza, sulla indeterminabilità del concetto di “fantasma”. E il “fantasma”, appunto, sorrise ancora, come di chi è scoperto. E si girò nell’ombra, vicino all’altro, scoprendo sul muro un accecante fascio di luce caravaggesca. Che mi atterrì…
Mi svegliai. Considerai, nel terrore sbalordito dell’incubo, quanto poco rassicurante fosse stata la mia spiegazione. Cioè che il fantasma non fosse stato altro che la proiezione fantastica di chi gli stava dietro, perché, a parte la circostanza di che cosa fosse fatto l’ectoplasma del mio povero fratello morto, la questione era che il tizio che non si vedeva altri non era se non l’altro mio fratello, morto altrettanto e anche prima del primo…
In alto, sul soffitto percepii un alone grigio, più che buio, che mi fece ritenere che forse l’alba inneggiava già nei cieli. Mi voltai alla sveglia, che segnava dal suo quadrante fiocamente “acceso” le due meno un quarto. Sul momento quella rauca pulsione di luce, sul soffitto, s’abbassò di un grado, e di seguito si abbassò ancora, facendo risaltare nitidamente quelle due meno un quarto di una notte senza lune.
Così, succube ancora del disagio amaro e allarmante dell’apparizione, enumerai dei concetti di causa. E il primo proveniva proprio dalla sveglia, il cui tenue lume non di rado soccombeva a un qualche calo di tensione, offuscandosi e sussultando similmente all’evento cui avevo assistito. Poi mi dissi che si trattava magari dell’effetto sulla mia vista del risveglio improvviso, come m’avesse lasciato nell’occhio la scia del suo onirico faro. Già, anche se un tale effetto di attenuazione non s’era mai fissato a memoria d’uomo nella mia pupilla. Rammentai infine il quasi cieco gioco di reverberi, quando le automobili intersecavano coi loro fari la grata della mie persiane: un morendo di tenui nastri d’arancione che tramontavano di fretta. Tanto che allungai l’orecchio onde percepire un rombo di qualcosa che s’allontanasse… ma non c’era nulla dentro la tenebra muta e tranquilla di una notte anonima e di quell’ora remota e senza storia.
L’ultima, ostica spiegazione, quella che la mia atea ostinazione si rifiutava di prendere sul serio, volteggiava in incognito al di sopra della mia coscienza, come un avvoltoio inteso ad imbeccarmi. Perché era la sua inversione dialettica, il contrario di tale coscienza venuto a porsi in contraddittorio con la mia ostinazione logico-razionale. Un pazzo contrario che insinuò in quel lucore smorto e spettrale il sospetto di una essenza e di una trasfigurazione che dal falso onirico del sogno avessero tradotto nel reale la vera luce di vita dei miei infelici fratelli. Una luce di fantasmi, finalmente, venuta da chissà dove a rischiarare soltanto la nostra cieca disperazione.
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