mi diagnosticai una falla
che, tra pensieri folli,
la mente mi spegnea.
Fu con estremo sforzo
di ciò che mi restava
dopo immani tentativi
di colpo la tappai.
Non era altro che
l’amara epatopatia
di familiar riscontro,
d’emblée riconosciuta,
che tanti e tanti danni
a me avea arrecato.
Per la sua etiologia
non altro vi trovai,
sono le “amorevolezze”
a queste alfin pensai.
Son quelle cose che
s’ingurgitano per sommo amore e,
quando troppe sono,
il mal ti vai a cercar
con questo inglorioso termine
di tal epatopatia
che può significar niente
o grave mal celar.
Ma io cosciente e dotto
in breve la combatto,
lo si vedrà il più forte!
Perfida ingannatrice,
mi cambi pur di sembianze,
da iena dissanguatrice
mi passi a mo’ di talpa
e scavi, scavi, scavi
tentando scacco matto
con i tuoi paladini della glissoniana.
Tu, prima mia corazza,
sostegno in ferratura
della primiera struttura,
che fai, mi ti rivolti
con aggressor impavidi,
ma resta nei tuoi limiti,
non sconfinar
nella limitante sacra,
perché, perso questo presidio,
la pugna è ormai fatta.
Di voi protettori epatici
è meglio non parlare,
ché, in caso di battaglia,
il vostro posto so.
Passivi e da lontano,
miei cari vil codardi,
se mai il sisma fosse,
le spalle voi dareste
ai pochi sopravvissuti
dello scempio letal.
Per l’incombente sisma
proprio sulla mia persona,
con voi fieri banditi
di glissoniana banda,
arrivo a certi patti:
se rimarrete inermi
nei vostri legal confini,
non più “amorevolezze”,
giammai ingurgiterò.
Non voglio, sì, per scienza,
ancora in coscienza,
per quegli incoscienti stadi,
passare a grado a grado
nella follia epatica,
che, per sconosciute strade
dai maleodoranti olezzi
e tra spie impenitenti,
ti arreca tanto danno.
Le “amorevolezze” no,
ma cosa introitar
per le cadenti membra?
Ma benedetto fegato,
pignolo precisone,
non metterti a far capricci
vedendo ovunque impicci
di falsi trasmettitor,
perché, in un tozzo di pane,
finanche non puoi vagliar,
che proteine in più,
ma cosa ci può star.
E tra le altre cose,
non metterti a far le bizze,
ché qualche fugace stipsi
la mente non può offuscar.
Tu, che da sempre il tramite
tra il monte e la valle,
concedi nuovamente ascesa
alla materna linfa vital
per quella miracolosa via
solerte ritentrice
d’ammonio iniquità.
Non far che questa linfa
per arrivar al monte,
dopo travagliosi circuiti,
viziosi e snaturati,
vi giunga ancora impura
per irrorare i suoi fusti
e infin, per tremori e scosse,
ciò che verde era,
trasforma irriverente
in arsi e secchi arbusti.
Mamma mia cara,
pazzo nel tuo nome,
non più ti tormenterò
con firme e giochi vari,
ma non ti lamentar
per fiumi di sciroppo,
miracol di catarsi,
e miscele nauseanti:
ancor altro non c’è.
Ma, pur tra tante pene,
non invocar più il nome
di un grande professore,
ché, con pousèe ed emblèe,
il mostro non si doma.
- Blog di Francesco Andrea Maiello
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