Scritto da © Franco Pucci - Sab, 14/01/2012 - 21:28
Lo incontrai alle tredici e trenta un Lunedì di Aprile del 1961 in Viale Zara, a Milano, alla fermata del tram della linea n°2. Alto circa un metro e settantacinque, moro, di corporatura normale e di aspetto gradevole, sfoggiava con disinvoltura un fresco Principe di Galles decisamente in anticipo anche per la precoce primavera di allora. Milano conservava ancora i sapori e i profumi di buono nelle periferie sorte un po’ caoticamente nel dopoguerra e prese alla sprovvista dalla prorompente dinamica economica, il boom. Il sole in quel mese di Aprile giustificava un certo ottimismo e metteva di buonumore, i primi tepori primaverili si mischiavano con i desideri impellenti di luce e calore dopo i mesi di freddo e di nebbie.
Si avvicinò con fare indolente e sorridendo mi chiese da accendere, portandosi una sigaretta alle labbra. Giovane, pensai, certamente giovane. Scommisi con me stesso che non poteva avere più di sedici, diciassette anni. Azionai il mio “Zippo” estraendolo dal taschino dei Jeans (con un moto di orgoglio, fumavo anch’io allora) e mentre lui si inchinava per accendere la sigaretta, ebbi modo di vederlo bene in viso. Mi parve di riconoscerlo, era un viso a me noto..Lo sferragliare del tram sulle rotaie interruppe il mio gesto di cortesia e rimandò di poco l’approccio ormai avviato. Come il solito, la ressa davanti al bigliettaio formava un tappo che impediva il regolare fluire dei passeggeri e i mugugni e le invettive verso il malcapitato tranviere si sprecavano. Vidimai il mio tesserino settimanale e così fece anche l’elegante interlocutore che avevo poco fa conosciuto. Ci accomodammo pressati come sardine in circa trenta centimetri quadrati e il viaggio ebbe inizio…
Non aveva terminato gli studi regolari, mi disse, poiché desideroso di autonomia economica e giudiziosamente (almeno così pareva) conscio delle difficoltà economiche che il percorso scolastico creava sulle spalle della sua famiglia. Aveva così preso al volo l’opportunità che si era presentata di un “impiego” come apprendista disegnatore tecnico. Otto ore al giorno davanti ad un tecnigrafo a sfornare lucidi su lucidi di schemi elettrici. Passare a china su carta lucida i disegni che i disegnatori preparavano a matita utilizzando una penna particolare, il Graphos. Timbrare il cartellino con un occhio all’orario per evitare le trattenute sullo stipendio e alla sera a scuola!
Cercava di accontentare i desideri del padre che lo voleva Perito Elettronico e allora…frequentava a singhiozzo l’istituto tecnico. Poco interessato a resistenze e transistor, “bigiava” spesso le lezioni ed era diventato uno spettatore assiduo di film del neorealismo francese (alcuni terrificanti e terribilmente pesanti alla stregua della Corazzata Potemkin) e di avanspettacolo che improbabili compagnie di guitti e scartellate ballerine mettevano in scena al Cinema Teatro Alcione. Aveva anche una ragazza, bionda, occhi verdi, seno prorompente, tratti raffinati su un viso di madonnina ingenua. Non contento degli impegni presi amava la musica e occupava i pochi minuti liberi dedicandosi allo studio della chitarra. Mi raccontava tutto con fare quasi distaccato, da viveur consumato, bulletto di periferia azzimato incartato in un vestito appariscente troppo, troppo da “grande”. A questo punto gli chiesi l’età ed ebbi la conferma della mia prima impressione: diciassette anni! Avevo vinto la scommessa. Gli scossoni dell’incedere traballante del tram interrompevano spesso il racconto e davano all’insieme un che di surreale, di artefatto sembrava quasi un film di Ridolini, lui raccontava interrompendosi a ogni fermata della vettura e poi riprendeva daccapo, ripetendo parte delle cose già dette…
Ma io non lo ascoltavo più ormai, la mia attenzione era tutta rivolta verso una macchiolina nera che faceva capolino dalla manica della giacca sul polsino della sua camicia azzurra. Strano, pensai, possibile che il giovane elegantone non si sia accorto di questo”neo” nel suo abbigliamento? D’altronde non potevo non notare la “falla”, avevo il suo avambraccio a un palmo di naso. Si accorse del mio interesse e mi disse con noncuranza, sospirando, “è china, quel maledetto Graphos non ne voleva sapere di funzionare, l’ho agitato troppo forte e così… purtroppo non va via più” Lo stop improvviso del tram, la sua esclamazione di disappunto, il suo saluto frettoloso…”cazzo sono arrivatooo ciaoooo”. Sparì inghiottito dalla ressa dei passeggeri che si stava sciogliendo come un ghiacciolo al sole. Scesero tutti quel Lunedì del ’61 a quella fermata del 2, alla Stazione Centrale di Milano. Io no. Avrei dovuto, il tecnigrafo mi aspettava, la carta da lucido era già fissata con le puntine sul tavolo da disegno e il Graphos, quel maledetto, anarchico attrezzo, sicuramente se la rideva nel cassetto della scrivania. Non ne avevo più voglia.
Fanculo anche il cartellino penso, mentre con tenerezza infinita, quasi accarezzandolo, richiudo l’astuccio che lo protegge assieme alla sua dotazione di pennini. Sono cinquant’anni che giace nel cassetto dei ricordi, oggi mi è capitato tra le mani. Non smetto di aprire e chiudere la sua custodia, infine mi decido, lo prendo, provo a innestare un pennino, lo 0.16, quello che usavo per segnare le quote sui lucidi. Non scrive. Stupidamente provo ad agitarlo, è senza inchiostro Franco, cosa fai? Domani mi comprerò una nuova camicia azzurra.
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