Scritto da © Hjeronimus - Ven, 21/10/2011 - 20:45
Il dittatore era in fuga.
Il suo impero era disintegrato, il suo mondo estinto. Si era arenato al di fuori della storia e il suo vecchio reame fuori corso, oscillante fra i due termini di 1) la corruzione- corrusco baccanale di teatranti abborracciati che scimmiottavano i peplum di una Hollywood ottenebrata- e 2) la repressione- impressionante tritacarne, sotto le cui ruote dentate si sfracellava il genio sottomesso delle generazioni-, si sbriciolava davanti alla sua impotenza e alla sua disdetta e sotto i colpi sempre più incombenti degli insorti. E questi lo incalzavano oramai da presso, mettendo panico e premura sotto le sue caviglie che, una volta, invece schiacciavano il dissenso come vermi.
Il dittatore scantonava nel “suo” deserto assurdamente innaffiato di sangue, scappato vinto battuto, come dice un cantautore, con le sue poche cose e le sue armi d’oro e ricolmo d’incomprensione, di paura, di domande da non rispondere.
Un tempo era stato figlio del suo tempo, eroe bello e crudele che aveva potuto affascinare la sua gente e sottometterla al proprio capriccio. Poi la sua opera s’era cangiata in operetta e sul suo trono non era restata che la crudeltà a dissipare il poco sangue ancora in circolazione. E infine, incalzato dagli insorti, s’era rintanato tra i suoi beduini a coltivare il sogno impossibile del ritorno…
Fino ad ora, fin qui, fino alla fuga, fatale ultimo Jolly da giocarsi nella partita della pelle, estrema ratio di colui che non ne possedeva… e infatti, nei suoi conti fatti male, nei suoi desideri senza il raziocinio non era apparsa la stella della possibile fuga prima di questa fretta odierna, di questa disfatta, di questa paura panica che gli scoppia nelle vene. Non gli era arrivata prima questa percezione, quando c’era l’offerta di un onorevole ripiego; e non gli giunge adesso quella dell’”amico americano” che lo tallona con la fantascienza. Perciò monta su una jeep e coi resti della sua compagnia che gli arranca dietro con un pulmino, si avventura alla cieca nel deserto, in fuga dalla muta rabbiosa dei suoi ex-sudditi. E ”l’amico americano” gli piove dal cielo sotto forma di un drone che centra la jeep mandandola in frantumi. Non basta. Il dittatore cerca scampo nei tubi di una fogna che si aprono sulla sabbia sporca. Ma è visto. È catturato e sanguina già dalla fronte. Lo trascinano stordito e terrorizzato su una macchina. È un vecchio arruffato, spelacchiato, che urla dagli sprofondi della vita i suoi ultimi guaiti.
Qui accade qualcosa di inusitato. I bimbi piangono si sa, se gli va storto qualcosa. E poi si stropicciano via i lucciconi con le manine chiuse a pugno. Tale è il cenno del vecchio assassino, che per vedere i volti dei suoi carnefici, asciuga il sangue che cola sul suo occhio sinistro con un tenero, infantile gesto della mano.
Ma intorno c’è la psicosi collettiva, un caos barbaro e feroce, ove un branco d’uomini, più bestie che quello dei lupi affamati, consuma a mo’ di rito primordiale la propria “sublime” rivincita. E allora il segno delle cose si muta, si ribalta, si capovolge, passando per buono ciò che è cattivo e per malvagio ciò che è oppresso.
Il bambino si stropiccia gli occhi umidi e il caos assassino che lo circonda non è mosso a compassione, non si accorge del suo piangere scarlatto, non fa scattare nelle sue viscere infettate dal male la molla della pietà che potrebbe salvare il mostro. E forse è giusto così, forse il tirannosauro non la merita. Ma chi uccide anche un solo gesto innocente, perde lui stesso e per sempre l’innocenza che voleva riscattare…
Il suo impero era disintegrato, il suo mondo estinto. Si era arenato al di fuori della storia e il suo vecchio reame fuori corso, oscillante fra i due termini di 1) la corruzione- corrusco baccanale di teatranti abborracciati che scimmiottavano i peplum di una Hollywood ottenebrata- e 2) la repressione- impressionante tritacarne, sotto le cui ruote dentate si sfracellava il genio sottomesso delle generazioni-, si sbriciolava davanti alla sua impotenza e alla sua disdetta e sotto i colpi sempre più incombenti degli insorti. E questi lo incalzavano oramai da presso, mettendo panico e premura sotto le sue caviglie che, una volta, invece schiacciavano il dissenso come vermi.
Il dittatore scantonava nel “suo” deserto assurdamente innaffiato di sangue, scappato vinto battuto, come dice un cantautore, con le sue poche cose e le sue armi d’oro e ricolmo d’incomprensione, di paura, di domande da non rispondere.
Un tempo era stato figlio del suo tempo, eroe bello e crudele che aveva potuto affascinare la sua gente e sottometterla al proprio capriccio. Poi la sua opera s’era cangiata in operetta e sul suo trono non era restata che la crudeltà a dissipare il poco sangue ancora in circolazione. E infine, incalzato dagli insorti, s’era rintanato tra i suoi beduini a coltivare il sogno impossibile del ritorno…
Fino ad ora, fin qui, fino alla fuga, fatale ultimo Jolly da giocarsi nella partita della pelle, estrema ratio di colui che non ne possedeva… e infatti, nei suoi conti fatti male, nei suoi desideri senza il raziocinio non era apparsa la stella della possibile fuga prima di questa fretta odierna, di questa disfatta, di questa paura panica che gli scoppia nelle vene. Non gli era arrivata prima questa percezione, quando c’era l’offerta di un onorevole ripiego; e non gli giunge adesso quella dell’”amico americano” che lo tallona con la fantascienza. Perciò monta su una jeep e coi resti della sua compagnia che gli arranca dietro con un pulmino, si avventura alla cieca nel deserto, in fuga dalla muta rabbiosa dei suoi ex-sudditi. E ”l’amico americano” gli piove dal cielo sotto forma di un drone che centra la jeep mandandola in frantumi. Non basta. Il dittatore cerca scampo nei tubi di una fogna che si aprono sulla sabbia sporca. Ma è visto. È catturato e sanguina già dalla fronte. Lo trascinano stordito e terrorizzato su una macchina. È un vecchio arruffato, spelacchiato, che urla dagli sprofondi della vita i suoi ultimi guaiti.
Qui accade qualcosa di inusitato. I bimbi piangono si sa, se gli va storto qualcosa. E poi si stropicciano via i lucciconi con le manine chiuse a pugno. Tale è il cenno del vecchio assassino, che per vedere i volti dei suoi carnefici, asciuga il sangue che cola sul suo occhio sinistro con un tenero, infantile gesto della mano.
Ma intorno c’è la psicosi collettiva, un caos barbaro e feroce, ove un branco d’uomini, più bestie che quello dei lupi affamati, consuma a mo’ di rito primordiale la propria “sublime” rivincita. E allora il segno delle cose si muta, si ribalta, si capovolge, passando per buono ciò che è cattivo e per malvagio ciò che è oppresso.
Il bambino si stropiccia gli occhi umidi e il caos assassino che lo circonda non è mosso a compassione, non si accorge del suo piangere scarlatto, non fa scattare nelle sue viscere infettate dal male la molla della pietà che potrebbe salvare il mostro. E forse è giusto così, forse il tirannosauro non la merita. Ma chi uccide anche un solo gesto innocente, perde lui stesso e per sempre l’innocenza che voleva riscattare…
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