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I pensieri di carne

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Un’idea, un pensiero, un ricordo, sono solo chimica ed elettricità, orgasmi di sinapsi impazzite, e a volte, flussi sanguigni irruenti, spesso imbarazzanti.

Alcuni pensieri, pue essendo solo impulsi elettrici, hanno come un peso specifico diverso da altri, ed in quel giorno, quel particolare pensiero mi aveva chiuso la mente a riccio, spine virtuali messe di guardia, a non fare scappare quel flusso di immagini e pensieri.
Erano i pensieri di carne, quelli che ti arrivano senza bussare o senza fare la fila, ti avvolgono e ti lasciano rosso paonazzo e a volte in evidente disagio se sei in mezzo a persone che hanno il vizio di occhieggiare a circa un metro da terra. Mi sono spiegato, credo.
Nel caso specifico le persone al contorno occhieggiavano davanti a loro, davanti al loro volante, per essere precisi, intenti ad evitare tamponamenti o di essere tamponati. Era la solita marea di transumanti inscatolati che si avviava verso la propria meta, che fosse lavoro o svago, incolonnati lungo l’interminabile ed immobile Raccordo Anulare.
Freddo umidità vento o pioggia, sono la discriminante tra andare in moto ed essere fermi incolonnati in macchina. Io da anni avevo deciso di entrare in intimità con le varie condizioni climatiche giornaliere, garantendomi però la possibilità di correre veloce tra una macchina e l’altra sempre graniticamente incolonnate.  Lo zigzagare continuo, la percezione di vedere scorrere via i veicoli, lasciarmi alle spalle centinaia di automobili ed il coinvolgimento mentale in pensieri di carne profumata, innescarono lo stato di totale confusione e spavento che ancora adesso cerco di razionalizzare e metabolizzare.
Capitò circa due mesi fa, appunto. La classica giornata mite, la solita corsa affannosa verso il lavoro, il solito ritardo necrotizzato, le solite tre corsie quasi ferme e rassegnate, e la mia lucida moto rossa che spazzava le corsie (emergenza compresa, ovvio) lasciandosi alle spalle lamiere colorate di ogni tipo. Quello fu il giorno in cui fui avvolto senza motivo dai pensieri di carne. Ero confuso e immerso tra voluttuosità non ben definite, uno o forse due corpi (!!) che sembravano l’essenza suprema del velluto di una pesca appena colta, non c'erano gommoni rossi o siliconi, ma vere labbra voraci che tendevano ad ispezionarmi ogni centimetro scoperto, spaziando tra epidermidi più o meno sensibili e foreste da tempo inesplorate… E…
E lei parlava al cellulare, comoda dentro la sua macchina, e mi sorrideva.
Si, mi sorrideva.
Ripiombai immediatamente sull’asfalto terreno, perché mentre superavo una graziosa 500 Rossa, mi accorsi delle gambe generosamente scoperte grazie ad uno striminzito tubino nero attillato, che attillava un corpicino ancor più delizioso della 500 Rossa. Dovetti necessariamente rallentare per il denso traffico (…) ed avvicinarmi per meglio scrutare la creatura che sarebbe stata oggetto di attenzione da parte del Ministero dei beni culturali.
Anzi, a guardarla bene, aveva un seno che era sicuramente patrimonio dell’umanità. Ero certo che l’UNESCO stesse alacremente lavorando al riguardo per accaparrarsene l'egida.
Parlava al cellulare e mi sorrideva, forse era in sintonia con i miei pensieri di carne, forse li vedeva, forse avevano odore, o erano colori che mi avvolgevano. Sta di fatto, che impellenti impegni lavorativi, mi imposero di ricambiarle il sorriso e stoicamente accelerare verso l’ufficio. La lasciai alle spalle, la vedevo sparire nello specchietto retrovisore, spariva proporzionalmente a quanto invece aumentava e prendeva forma nella mia mente l’immagine della tipa in tubino nero mentre veniva lentamente da me detubinata, mentre pelle bianca prendeva luce e decolleté generosi terminavano di essere generosi e si palesavano in forme morbide adagiate al corpo ed in sintonia con la tenue ma costante attrazione gravitazionale. Credo di avere passato gli ultimi quindici minuti immerso in immagini e pensieri non del tutto propriamente qui trascrivibili, ed intanto sfrecciavo verso l’azienda che mi attendeva a porte aperte.
E capitò ciò che ancora adesso mi lascia turbato e confuso, io non so in che tipo di astrazione spazio-asfalto-temporale (e carnale, direi…) mi ero immerso, so solo che a cinque macchine davanti a me, c’era lei.
Mi affiancavo allora alla graziosa 500 Rossa, mi accorgevo allora delle gambe generosamente scoperte grazie ad uno striminzito tubino nero attillato, che attillava un corpicino ancor più delizioso della 500 Rossa. Parlava al cellulare e mi sorrideva, forse era in sintonia con i miei pensieri di carne, forse li vedeva, forse avevano odore, o erano forse i colori che mi avvolgevano.
In quel momento non furono gli impellenti impegni lavorativi, che mi imposero di non ricambiarle il sorriso e stoicamente accelerare verso l’ufficio. Era paura e spavento. Era stato di totale assenza di consapevolezza del mio essere.
Che mi era successo???
Come era possibile avevo lasciato centinaia e centinaia di auto alle mie spalle, ed ora me la ritrovavo nuovamente li davanti a me?
Dove ero stato in quei venti minuti vietati ai minori di 18 anni, fatti di chimica elettricità e flussi di sangue concentrati? Mi ero fermato e non ricordavo?
Ero caduto? Cazzo, avevo avuto un terribile incidente e ora ero in coma al Sandro Pertini con tubi e filamenti vari infilati ovunque?
No, tutto no. Niente di tutto questo. Tutto quasi normale, infilai la rampa di svincolo ed incomincia ad affrontare una giornata lavorativa che sembrava normale. Che cercavo in ogni modo di renderla normale o farla sembrare normale.
Non saprò mai, credo, cosa accadde quel giorno, so solo che qualcosa di innaturale e poco terreno accadde, non ne parlo con nessuno, tanto nessuno a tempo di ascoltare cose che semplicemente non può capire. Ma ora il fatto l’ho raccontato, ne ho avuta la forza e mi sento meglio, e se qualcuno pensa di potermi aiutare a capire, o se ha vissuto un’esperienza simile, io… io sono qui per ascoltare.
 
Fine.

 
Fine?
Forse la fine per quel cretino che scrive qui sopra. Il cretino non saprà mai che Ilaria e Irene erano due splendide gemelle che adoravano essere gemelle in tutto. Come lessi una volta in un bel racconto, erano talmente gemelle che quando erano insieme parevano proiettare un’unica ombra.
Erano dichiaratamente gemelle, lo manifestavano in tutto, nel modo di vestire, stessa macchina, stesso cellulare, stessi capelli e stesso tubino nero e stesse tette imperiali. Quel giorno si stavano tenendo in contatto al telefono, erano entrambe imbottigliate sul raccordo a quindici chilometri di distanza una dall’altra, partite non con la sincronicità tipica delle gemelle, perché l’altra, più nostalgica, era partita più tardi per osservare e salutare le cose che avrebbe lasciato a Roma per sempre.
Irene e Ilaria erano in viaggio quella mattina. Stavano coronando il loro sogno, erano belle, in salute giovani e piene di belle speranze, ma un tipo di speranze che a Roma non ce ne erano, e  lo sapevano bene.
Irene e Ilaria stavano andando a Milano, a cercare il successo.
Loro se lo sentivano, a Milano avrebbero sfondato.   
O le avrebbero sfondate.
O molto più semplicemente, entrambe le cose.
 
Fine vera.
 

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