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Il ciclo

Si cominciò a parlare di questa faccenda quando un giovane, brillante frequentatore di prestigiosa università di tecnologia, appartenente a importante famiglia della provincia, raccontò al preside, di essere stato oggetto di molestie sessuali, anche violente, nel giardino della scuola, da parte di una donna coperta dal burqa. Se ne era liberato chiamando aiuto ad alta voce e contrapponendosi fisicamente alle avance della sconosciuta. Non seppe dire quale lingua parlasse né se veramente proferì parola, oltre gli ansimi e cupi mormorii. Un fatto analogo, accadde su un ascensore, non servito da lift, nel palazzo di importante compagnia assicuratrice, dove un avvenente funzionario, venne anch’esso fatto oggetto di pesanti approcci, palesemente sessuali, da una donna coperta completamente dal burqa, azzurrino, che non rimosse mai, neanche quando tentò con forza di venire a contatto col viso di lui, baciare, pensò il giovane. Anche questa volta, le grida della vittima, fecero allontanare la malintenzionata e tutto finì con una lacunosa denuncia al distretto di polizia.

 

Cronologicamente, tra i due fatti, erano passati 28 giorni e 28 giorni dopo, in una cittadina vicina, nello spogliatoio di una squadra di calcio amatoriale, un giovane che si era attardato, solo, nelle docce, venne aggredito, morso e pesantemente malmenato, specie nei pressi dell’inguine, da una donna vestita di burqa azzurrino, che lasciò la presa alle urla del giovane. Lui , in un primo momento, aveva fatto buon viso e soltanto ai modi violenti aveva opposto resistenza, reagendo e gridando. Non capì nulla di quanto la donna borbottasse, notò soltanto un “grosso” respiro affannoso, come se avesse giocato una faticosa partita di calcio.

A 28 giorni di distanza, su una spiaggia di mare, di notte, un gruppo di giovani, maschi e femmine si era radunato per un falò, cantare, suonare e bere birra e sotto la luna piena illuminante, all'improvviso, un urlo bestiale li spaventò a morte, tanto che dopo un primo accenno d’intenzione a verificarne l’origine, la maggioranza optò per andarsene e in fretta. Uno di loro, che insisteva per attribuire ad uno scherzo, quello che stava accadendo, si trattenne e all’indirizzo del buio attorno, mandava messaggi di sfida e di invito a rivelarsi. Gli altri avevano già raggiunto le auto e si attardavano per aspettare il compagno, chiamandolo a gran voce, quando sentirono lui, gridare aiuto, chiamare disperato qualcuno. Non se la sentivano di tornare indietro ma alla fine presi alcuni attrezzi dalle macchine e brandendoli a mo’ di clava, tre di loro tornarono sui passi, sebbene non si sentisse più la voce dell’amico. Superata l’ultima duna, alla luce della luna e del falò, quasi spento, videro il compagno giacere a terra e un a figura azzurrina che lo sovrastava, frenetica. Urlando, tutti e tre, corsero verso il fuoco, mentre la figura incappucciata, si dava alla fuga velocemente, verso il buio. Il giovane era seminudo, coi panni a brandelli, specie i pantaloni. Aveva un’espressione terrorizzata, gli occhi sbarrati, vitrei e non proferì parola. Venne soccorso, portato all’ospedale, ma non parlò per giorni. Quando lo fece, ripeté il racconto dei precedenti, una donna col burqa azzurrino, dalla lingua incomprensibile, gutturale e col fiato grosso, ansimante, gli aveva usato violenza, tentando la copula, senza riuscirci. I compagni confermarono il particolare del burqa, al quale però avevano pensato dopo che il compagno l’aveva indicato. Anche in questo caso lo scopo dell’aggressione, sembrava essere la concupiscenza sessuale, però come nei casi predenti, l’aggressore non si scopriva il corpo o il viso. Forse la reazione provocata dai suoi modi non gli dava il tempo di farlo, si pensava. Rimaneva particolarmente imbarazzante, per gli investigatori, che nessuno – dopo o prima dei fatti – avesse notato nei dintorni, ma anche non tanto vicini, nessuna donna indossante il tipico indumento e, nelle zone dove i fatti avvenivano, non c’era presenza particolare di mussulmani. Quei pochi che furono interrogati, avevano alibi confermati e non dettero luogo a maggiori sospetti.

Passarono 84 giorni, tranquilli all’apparenza, dato che, al momento, non si registrarono denunce di nuovi fatti simili, quando fu riferita l’aggressione ad un giovane tossicodipendente, che viveva con altri miseri, di notte, sotto la sopraelevata, nei pressi della discarica dei rifiuti. Il racconto dei compagni di sventura, in parte, non si discostava dai precedenti: una donna, tutta coperta da una tonaca, si era avvicinata al giovane che dormiva tra i cartoni abbandonati. Non si interessarono più di tanto, poi ci fu un verso strozzato, come di uno impossibilitato a respirare bene. Scapparono via e soltanto alcuni avevano visto che la donna gli era sopra, a cavalcioni, frenetica a lungo. Avevano sentito gemiti di piacere che non avevano saputo però attribuire e poi, la donna, se lo era portato via, gettato sulle spalle, verso la montagna dei rifiuti.

Non che non li credessero, ma gli investigatori, fecero controvoglia le ricerche tra il fetore delle cose marcite, rifiuti antropici d’ogni genere, ratti e gabbiani aggressivi. Soltanto la vista di cose vecchie rivoltate all’aria, li costrinse a scavare, e trovarono: il corpo del giovane, privo di vita, con i pantaloni a brandelli, graffi vistosi al collo e il torace e l’addome squarciato.

Uno dei barboni più curiosi, disse di aver visto – nel corpo del ragazzo – come delle palle da tennis mocciose, bianchicce, ma gli altri non gli dettero peso. Uno degli investigatori, anni dopo la sua quiescenza, raccontò che all’istituto di medicina legale, avevano appurato che il ragazzo aveva nell’addome 28 uova di animale, assolutamente sconosciuto. Erano state mandate ad un istituto di ricerca biologica americano, e da allora non se ne è saputo più nulla.

 

 

 

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