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Josephine Hart: il danno di essere al mondo

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Tre mesi fa moriva Josephine Hart, la scrittrice di origine irlandese che ci ha regalato alcuni tra i romanzi più intensi degli ultimi decenni, tra cui il più famoso è certamente Il danno (Feltrinelli, 1991). 
 
"C'è un paesaggio interiore, una geografia dell'anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita.
Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l'acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa. Alcuni lo trovano nel luogo di nascita; altri possono andarsene, bruciati, da una città di mare, e scoprirsi ristorati nel deserto. Ci sono quelli nati in campagne collinose che si sentono veramente a loro agio solo nell'intensa e indaffarata solitudine della città. 
Per qualcuno è la ricerca dell'impronta di un altro; un figlio o una madre, un nonno o un fratello, un innamorato, un marito, una moglie o un nemico. Possiamo vivere la nostra vita nella gioia o nell'infelicità, baciati dal successo o insoddisfatti, amati o no, senza mai sentirci raggelare dalla sorpresa di un riconoscimento, senza patire mai lo strazio del ferro ritorto che si sfila dalla nostra anima, e trovare finalmente il nostro posto".

E' questo il fulminante incipit de Il Danno, il romanzo che ha reso famosa Josephine Hart nell'ormai lontano 1991. Ma le parole, contrariamente a quanto pensano gli uffici stampa, non muoiono facilmente e c'è sempre qualcuno disposto a recuperarle e a custodirle: il lettore
Mentre penso allo stile tagliente e asciutto, amaramente ironico, di Josephine Hart mi viene spontaneo chiedermi se, per caso, certi suoi personaggi non siamo dei "lettori" camuffati, vale a dire dei custodi - spesso sofferenti e diversi, dietro l'apparenza inappuntabile di un impermeabile o di un completo grigio- della parolanon detta, quella che non può essere pronunciata. La parola che, come ci ha dimostrato spesso Maurice Blanchot, comunica sempre con la morte. Penso al medico protagonista di questo romanzo, al suo segreto che si chiama Desiderio ma che, spesso, durante la lettura assume svariate forme di cui Anna, la sua amante oltre che futura moglie di suo figlio, non è forse che l'incarnazione più esplicita. La più rovente, se si vuole, ma non è l'unica.

Essendo dotata di un intuito genuino per i sotterfugi dello spirito, Josephine Hart conduce il gioco letterario con mano sapiente e senza preoccuparsi di colpire il lettore con un linguaggio esuberante che, al contrario, tiene sempre sul filo di un (lo si è detto spesso) "minimalismo" stilistico che non mi sembra sia stato tradito dalla versione cinematografica di Louis Malle. Inutile, naturalmente, fare paragoni tra il romanzo e il film: due codici espressivi diversi producono sensazioni differenti, giocano su piani che non sono equivalenti (da qui, forse, lo scetticismo di Gerard Depardieu che, dicono, si sarebbe meravigliato del successo del film).
Nel romanzo si aprono continue finestre sporche di sangue attentamente ripulite dalla coscienza, ben prima che si assista alla tragedia finale: si tratta, a mio parere, delle descrizioni della vita familiare, della moglie Ingrid, autentico totem domestico destinato alla demolizione; così come dei viaggi notturni legati soltanto all'angoscia della perdita e al desiderio di un'impossibile presa sulla realtà. 
Certamente uno dei romanzi più importanti degli ultimi anni, e per una volta sono sicuro che non è una frase retorica.

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