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Ogni dubbio - quinta parte -

Respiravo a fatica e, per quanto fosse sembrato facile abbattere quei due rinoceronti imbizzarriti, non lo era stato affatto. Avevo dovuto fare appello a tutte le mie forze fisiche e mentali per poter avere la meglio su quegli individui  Presi fiato, m’inginocchiai appoggiando entrambi gli arti superiori sulle ginocchia e, lasciando cadere a terra la sbarra di metallo, mi guardai in giro. Era mia fervida intenzione dare una  bella lezione a Olga e con questa convinzione lo sguardo scandagliò l’intero ambiente. Mi sollevai con estrema lentezza, ma di lei non c’era più traccia. Era sparita nuovamente, ancora una volta questa sua strana prerogativa s’era dannatamente concretata. Dando un’ultima occhiata ai corpi immobili sul pavimento, raggiunsi quella che doveva essere l’uscita, mi fermai e, prima d’oltrepassarla, mi girai indietro convinto più che mai che questa vicenda doveva essere a tutti i costi risolta. Varcai senza esitazione l’uscio e mi ritrovai in un’ampia stanza illuminata a giorno. Era ampia, spaziosa e ben arredata, al centro della stessa, posizionata strategicamente, una scrivania in legno mostrava tutta la sua solennità. Su di essa, ordinati, facevano mostra di sé un registro, un faldone blu, una lampada e un bicchiere che conteneva un mucchio di penne colorate. Mi avvicinai senza alcun timore e, raggiuntala, sospirando vi appoggiai le mani. Nella stanza aleggiava uno strano odore di alcol e tabacco, come se qualche attimo prima qualcuno avesse dato un festino senza curarsi troppo di ciò che stava accadendo solo qualche metro più in là, e, magari, era proprio così, quello che stava capitando doveva rientrare in un piano prestabilito. Il rapimento, l’interrogatorio, compreso l’amplesso, dovevano rientrare in una trama studiata a tavolino, dal cui esito dipendevano molte cose, ma purtroppo qualcosa non ha funzionato secondo i piani, pensavo mentre guardavo la scala in ferro che portava su mezzanino di un metro e mezzo d’ampiezza a circa un paio di metri d’altezza. Già…qualcosa non aveva funzionato, forse quell’animale che rispondeva al nome di Franco Medinelli, era stato oltre modo scorbutico…Che impudente quel ragazzaccio…Ma il fatto era che lui non sapeva nulla e anche se avesse saputo non avrebbe rivelato proprio un bel niente…A Franco non piaceva la violenza e la maleducazione…e loro lo erano stati. Mi misi a ridere sonoramente. Come potevo essere così stupido a scherzare, usando l’arma dell’ironia, su una situazione così tragica. Mi avevano sequestrato e mi avrebbero persino ucciso, ma quel modo di sdrammatizzare paradossale era insito in me e, ogni volta che mi trovavo in pericolo, reagivo in quel modo, esorcizzavo la morte proprio in quel modo. Mi accorsi ben presto che quella piccola scala, formata da solo quindici pioli, era stata prefabbricata e anche non molto bene. La porticina era stranamente socchiusa, fatto questo che mi preoccupò notevolmente. Tossicchiai con robustezza, più per cercare di farmi coraggio che per necessità. Dentro di me c’era una vocina che mi diceva con cipiglio: “Vattene Franco…Che fai ancora in quel posto. Non rischiare oltre il dovuto. E’ faccenda per la polizia…Non può andarti sempre bene…”. Quella vocina si bilicava come un’altalena per bimbi sull’orlo della coscienza e la forza con cui si esternava stava lentamente facendo breccia nel mio auto-istinto di conservazione…Stavo per girarmi, sollevare i tacchi e delegare tutto a chi di dovere, quando, nel silenzio di quell’ambiente, all’improvviso, ci fu uno schiocco sordo che proveniva proprio da dietro quella porta…[ continua ]

 

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