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Su Hegel

Tanti, tanti anni fa girava per Roma uno sfortunato giovane il quale, si diceva, aveva perso insieme la mamma e la ragione, mentre studiava per laurearsi all’università. Sproloquiava girovagando e formulando espressioni enigmatiche e ingarbugliate in cui miti, dèi e imperatori interferivano con la mamma, il bus, la spesa e sembrava impossibile venirne a capo. Già, finché una sera me lo ritrovai faccia a faccia  davanti a un tavolo di osteria. E siccome sentivo oscuramente che soltanto la mia intuizione, la mia sensibilità, nel giro delle possibili conoscenze di tempo e luogo, avrebbe potuto forse disciogliere quell’enigma, ci parlai a lungo e per esteso, riannodando tutti i fili strappati, tutte le connessioni azzardate e inconseguenti del suo delirante soliloquio. Compresi che raccontava la sua giornata, che aveva fatto un giro a Ostia Antica e che rendeva nel suo intraducibile pastiche  semantico tutto attuale e interdipendente. Così l’imperatore romano se ne andava a spasso in metropolitana e lo accompagnava a casa, ove altri personaggi altrettanto altolocati uscivano dai libri di storia e dialogavano con lui, insieme a numi, dèi, frammenti e varia umanità, delle scatolette di sardine o del traffico di Roma.
Ma c’era una logica. Era questo il segreto. Tutto quell’insensato delirio conteneva un esile barlume  di ragione che, pur “surrealista” nelle sue astruse simbologie, riconduceva ad una unità coerente e raziocinante il caos apparentemente irreparabile dei suoi pezzi di pazzia gettati alla rinfusa.
Questo mi sovviene ora, più di trent’anni dopo, sprofondandomi nelle ri-lettura, ossia nella ri-traduzione (perché di questo si tratta), pure a trent’anni di distanza, della lingua “assurda”, o del Fraktur filosofico, di Hegel e della sua ostrogotica, visionaria, fosforescente “Fenomenologia dello spirito”. Sì, perché il suo “rinominare” di seguito ogni santa cosa, ogni oggetto, ogni concetto per farli riapparire sotto una luce rigorosa e incomprensibile, sa di pazzia. Sembra di riascoltare il racconto del matto di piazza Navona e di risobbarcarsi il compito di rendere intelleggibile il suo mondo sfortunato (ma senza il nobile scopo di offrirgli comprensione) a insabbiarsi la mente per trovare la connessione tra la cripta ermeneutica hegeliana e il mondo di fuori, cui pure è radicalmente consentaneo. Così ad esempio sul termine di “forza”, la cui determinazione si deve valere, nel suo essere-in-sé, del suo essere-altro, perché altrimenti di che si varrebbe la forza se non si esercitasse fuori di sé (è un po’ questo il senso)?, con la conseguenza che, anche in questo caso verrebbe da dire, essa si auto-esclude, nel suo essere-in-sé, parimenti al suo opposto- ossia si auto-elimina e, al solito, non resta che questo: la forza è il concetto di forza e abita soltanto nel pensiero.
Tutte queste erudizione e intelligentsia sono comunque appese al filo della pazzia, come risulta dalla nostra similitudine, e non c’è che un passo tra tutta questa ratio, così maniacalmente logica e scientifica, e il manicomio vero e proprio. E bisogna essere un po’ Freud per leggerla e comprenderla, e non, come stradetto migliaia di volte, “addetti ai lavori” dell’epistemologia.   
                                                                            Postilla.
Certo, è riduttivo trattare il povero Hegel come un povero pazzo (anche se maltrattarlo un pochino accorda un guizzo di goduria maligna). Non bisogna dimenticarne la grandezza, né dimenticare che lui parla lì dell’alba della ragione e i fili che cerca sono quelli che legano insieme lo stato delle cose e il logos che le interpreta. E per quanto parli a denti stretti e “dentro” le righe del suo pur inintelleggibile lessico, e per quanto “si sporga” un po’ fuori di quello che ci sembra di vedere del mondo, resta che la sua immensa speculazione ci ha reso possibile la comprensione della nostra struttura più radicale e originaria: il linguaggio.
Questo mi era sembrato di cogliere ani fa e questo ribadisco adesso, coadiuvato in ciò dal curatore di questa edizione Bompiani (Cicero) e dalle parole di Hegel stesso, che sembra presumere queste stesse conclusioni, ma che poi, com’è noto, preferirà anteporre il Dio al linguaggio (o identificarli). Per esempio quando contrappone alla certezza sensibile il fenomeno come suo interno epperciò come rimosso della medesima, magari senza averne l’ambizione, apre completamente il campo alla fenomenologia di Husserl e Jaspers, ossia novecentesca, mettendone in maestà piuttosto il linguaggio come struttura che un cosmo strutturato come Dio.
Contrapponendosi così a Kant, egli ci dice che l’oggetto è conoscibile, è compenetrabile, in quanto oggetto stesso del conoscere e non dell’’”in sé” indifferenziato che esso mostra alla certezza sensibile. Ma invece di dirci infine che tale oggetto non è che una parola, non riuscendo a rinunziarvi, suggerisce trattarsi della parola, del ragione, del logos di Dio. Un luogo in cui proprio grazie a lui è diventato impossibile tenergli bordone (Marx, Feuerbach, Schopenhauer e poi tutti gli altri…).
 

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