Scritto da © Hjeronimus - Ven, 17/06/2011 - 13:35
C’è un bel film tedesco, recente, che si intitola “Le vite degli altri” (Das Leben der Anderen), che ha vinto un Oskar ed è intessuto sulla vita difficile, e relativa disumanità, sotto dittatura, fattispecie degli artisti.
E c’è in circolazione una vulgata teorica, cioè una interpretazione volgare, che ne fa un’apologia malintesa e malintenzionata, che sicuramente sarebbe agli antipodi delle intenzioni degli autori, se questi mai venissero a contatto della miseria culturale da cui proviene. Si tratta dell’italica miseria della maggioranza che, da noi, detiene il triste primato dei media, oltre che del governo, facendo apparire ovunque l’approssimazione semianalfabeta da cui hanno tratto la forza di affermarsi. Questi, credendo di difendere i medesimi presupposti del regista, si sono imbarcati in una tirata anticomunista d’altri tempi, ritenendo superficialmente (ed erroneamente) che quello fosse l’intento del racconto, mostrare le “aberrazioni” del comunismo.
Ora, per ben comprendere l’abissalità di questa asinaggine, è necessario fissare bene il senso (o non-senso) delle parole: ciò che all’est si chiamava “comunismo” coincideva più o meno con ciò che da noi, all’ovest, si chiamava anche “anti-comunismo”. Ed il senso non stava nel dichiararsi “qualcosa” all’est, o “anti-qualcosa” all’ovest, quanto nel rivelare ciò che la “cosa” stessa era ed assumeva nel suo concretarsi. Questa cosa era, ed è, l’autoritarismo, il potere tirannico di uno solo esercitato contro tutti gli altri. Chi mostrava tali belle attitudini e le esercitava pubblicamente, coadiuvato dalla violenza militare o poliziesca, si chiamava laggiù “comunista”, e da noi “anticomunista”, ed erano uguali. Gli stessi soggetti, animati dalle medesime brame, ideologie e condotte. Ossia, la prepotenza, l’arroganza, la medesima insaziabile fame di cose da arraffare e di persone più deboli da sopraffare ed asservire. Questa fame ancestrale e animalesca è l’inevitabile deriva sadica della compulsione nevrotica: quando l’uomo, nella sua irrimediabile miseria spirituale, compulsa negli appetiti carnali il mancato appagamento interiore, e risponde quindi alla necessità trascendentale con un introito “orizzontale”, per così dire, soddisfacendo appunto soltanto quegli appetiti, e non l’ordine trascendentale di quell’incompreso moto dello spirito, ecco che tende a smarrire via via anche quella soddisfazione carnale, che perciò, onde essere rievocata, abbisogna di un continuo auto-superamento, portandosi al parossismo. Il che, nell’ambito pulsionale, diventa sadismo. Il potere, il concetto di potere, trova in tale movimento il proprio nesso causale, ed è perciò sadico per definizione. E la storia della civiltà non è che il tentativo, continuamente rinnovato, di comporre questa fatale tendenza del desiderio in un quadro di rapporti accettabili e vicendevolmente sostenibili.
Così ogni epoca, e persino ogni gruppo sociale, conferisce il titolo che vuole a siffatta pervicace indole dell’essere umano. E per far credere, massimamente ai gonzi, che tale è soltanto quella del proprio avversario politico, la si rovescia su quest’ultimo, sul suo nome e sui suoi simboli. Ecco come e perché le gesta di chi era comunista all’est, si eguagliano in un modo persino allarmante con quelle di chi da noi si professava, e ancora si professa, anticomunista.
E agli artefici di quella erronea interpretazione del film tedesco diremo questo: cari ragazzi, non è che i sistemi repressivi e autoritari rappresentati su quel film non siano spregevoli e da stigmatizzare; è che voi che li denunciate siete fatti della stessa pasta e che, all’occorrenza, vi sareste schierati dalla parte degli aguzzini, mica da quella giusta… e comunque, il film parlava della resurrezione del senso di umanità proprio nel cuore abissale di chi era preposto all’abiezione sadica e trova invece la forza (morale) ed il senso (morale) della propria disobbedienza.
E c’è in circolazione una vulgata teorica, cioè una interpretazione volgare, che ne fa un’apologia malintesa e malintenzionata, che sicuramente sarebbe agli antipodi delle intenzioni degli autori, se questi mai venissero a contatto della miseria culturale da cui proviene. Si tratta dell’italica miseria della maggioranza che, da noi, detiene il triste primato dei media, oltre che del governo, facendo apparire ovunque l’approssimazione semianalfabeta da cui hanno tratto la forza di affermarsi. Questi, credendo di difendere i medesimi presupposti del regista, si sono imbarcati in una tirata anticomunista d’altri tempi, ritenendo superficialmente (ed erroneamente) che quello fosse l’intento del racconto, mostrare le “aberrazioni” del comunismo.
Ora, per ben comprendere l’abissalità di questa asinaggine, è necessario fissare bene il senso (o non-senso) delle parole: ciò che all’est si chiamava “comunismo” coincideva più o meno con ciò che da noi, all’ovest, si chiamava anche “anti-comunismo”. Ed il senso non stava nel dichiararsi “qualcosa” all’est, o “anti-qualcosa” all’ovest, quanto nel rivelare ciò che la “cosa” stessa era ed assumeva nel suo concretarsi. Questa cosa era, ed è, l’autoritarismo, il potere tirannico di uno solo esercitato contro tutti gli altri. Chi mostrava tali belle attitudini e le esercitava pubblicamente, coadiuvato dalla violenza militare o poliziesca, si chiamava laggiù “comunista”, e da noi “anticomunista”, ed erano uguali. Gli stessi soggetti, animati dalle medesime brame, ideologie e condotte. Ossia, la prepotenza, l’arroganza, la medesima insaziabile fame di cose da arraffare e di persone più deboli da sopraffare ed asservire. Questa fame ancestrale e animalesca è l’inevitabile deriva sadica della compulsione nevrotica: quando l’uomo, nella sua irrimediabile miseria spirituale, compulsa negli appetiti carnali il mancato appagamento interiore, e risponde quindi alla necessità trascendentale con un introito “orizzontale”, per così dire, soddisfacendo appunto soltanto quegli appetiti, e non l’ordine trascendentale di quell’incompreso moto dello spirito, ecco che tende a smarrire via via anche quella soddisfazione carnale, che perciò, onde essere rievocata, abbisogna di un continuo auto-superamento, portandosi al parossismo. Il che, nell’ambito pulsionale, diventa sadismo. Il potere, il concetto di potere, trova in tale movimento il proprio nesso causale, ed è perciò sadico per definizione. E la storia della civiltà non è che il tentativo, continuamente rinnovato, di comporre questa fatale tendenza del desiderio in un quadro di rapporti accettabili e vicendevolmente sostenibili.
Così ogni epoca, e persino ogni gruppo sociale, conferisce il titolo che vuole a siffatta pervicace indole dell’essere umano. E per far credere, massimamente ai gonzi, che tale è soltanto quella del proprio avversario politico, la si rovescia su quest’ultimo, sul suo nome e sui suoi simboli. Ecco come e perché le gesta di chi era comunista all’est, si eguagliano in un modo persino allarmante con quelle di chi da noi si professava, e ancora si professa, anticomunista.
E agli artefici di quella erronea interpretazione del film tedesco diremo questo: cari ragazzi, non è che i sistemi repressivi e autoritari rappresentati su quel film non siano spregevoli e da stigmatizzare; è che voi che li denunciate siete fatti della stessa pasta e che, all’occorrenza, vi sareste schierati dalla parte degli aguzzini, mica da quella giusta… e comunque, il film parlava della resurrezione del senso di umanità proprio nel cuore abissale di chi era preposto all’abiezione sadica e trova invece la forza (morale) ed il senso (morale) della propria disobbedienza.
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