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Fankenstein

“…Sapevo che mi stavo preparando ad un’atroce tortura; ma ero lo schiavo, non il padrone, di un impulso che odiavo e al quale tuttavia non potevo disobbedire.”
“…Da allora il male diventò il bene per me.”
“…l’angelo caduto diventa un malefico diavolo.” Così parla la “creatura”, mettendo la parola fine alla propria disumana disavventura. E mettendola anche alla lettura troppo lunga, troppo raccontata, troppo ridondante del Frankenstein, di Mary Shelley. Un racconto che, tuttavia, proprio in tale finale si trasfigura e giunge infine  a quella specie di catarsi tragica cui verte per tutte le sue trecento e passa pagine.
Prima ancora di ciò, balzano all’occhio del lettore curioso due elementi che fungono un po’ da corollario ad una cotal lettura: uno è il rapporto col Frankenstein cinematografico, che è stupefacente. Qui non c’è che il mostro che rassomigli a quello filmico. Di tutto il resto non resta  nulla sul film che coincida con questo racconto. Fin dalla creazione del mostro: sul film è l’elettricità, ghermita alla potenza del tuono, che insuffla vita nella creatura. Sul libro si tratta di un processo chimico, che non è neanche “interessante” per la scrittrice, che difatti non lo descrive: ci si ritrova la “bestia” bell’e fatta, quasi di botto. E questo ha un senso: per noi, umanità ammaliata dalla tecnologia come da un Olimpo fantascientifico, è fondamentale la possibilità  scientifica di violare la natura e rifarla coi nostri mezzi, non le implicazioni morali che tale processo comporta. Fondamentali queste, invece, per Mary, i cui referenti sono invece ancora umanistici, pur nel loro gotico romanticismo. L’altro elemento di curiosità è lei medesima, Mary Shelley, la cui mirabolante e infelice parabola esistenziale quasi induce alla lettura del suo cupo romanzo. La vita proto-hippy di Mary Shelley, moglie del poeta Percy. Una vita che è simile a una girandola di lutti quasi assurdi che spiegheranno in parte la vocazione “tenebrosa” del libro. A cominciare dalla nascita, subito causa della morte della genitrice. Per continuare nei suicidi, per esempio della sorella, nei decessi di due figli, nella scomparsa in mare di Percy, eccetera.
Da un tale curriculum scaturisce evidentemente la vera vocazione del romanzo, ossia il senso del suo messaggio. Che coincide solo marginalmente con le traveggole gotico-oniriche del Romanticismo, sia pur data per dominante la fascinazione che questo subisce dall’orrido, dal ripugnante, dal truculento. Mary concepisce l’unità di estasi e dolore, di felicità e di male, di grazia e mostruosità, proprio perché lei ricama sulla propria esperienza la terribile dualità che la vita le offre. Percepisce così che nessun sentimento umano è immune dal proprio contrario e che, di conseguenza, e direi freudianamente, alla base di ogni sentire si installa quella ambivalenza emotiva che traina i comportamenti umani sempre sul binario della contraddizione. Una concezione intessuta sulla sofferenza ch’ella ha sperimentato su di sé e che, per fare un esempio, troverà in Simone Weil, autrice non per caso de "L’ombra e la grazia", una sorta di compimento teorico. Un grande apporto del femminile alla irrisolta questione delle radici dell’essere, perché è proprio di qui che sorgerà l’intuizione finale di Freud, dall’ambivalenza emotiva alla coazione a ripetere. E dico femminile perché questa sofferenza “sdoppiata” mi pare coincidere col lato femminile dell’umano ed è perciò fin quasi ovvio che siano donne a rendercene edotti.     
La “trascendenza” del libro si svela dunque nelle ultime pagine, ove il mostro, sin troppo colto e distinto, decanta la cifra grandiosa del proprio dolore e avverte che non è senza rimorsi e afflizione che egli compie il male, che anzi il male si compia in sé, universalmente, facendo ribaltare la sua metafora in alcunché di “stringente”, di pregnante, che obbliga chiunque ne venga avvisato a provvedere. Anche se è manifesto che gli uomini, come dice Giovanni, preferirono le tenebre…
Ecco, per questo messaggio erano magari sufficienti le ultime trenta pagine. L’eccesso di Mary è fin troppo “inglese”, per così dire, e porta solo con una certa stanchezza alle fondamentali argomentazioni conclusive, che consegnano comunque la sua fatica alle glorie immortali della letteratura.
 
 
 

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