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Sogno disperato

 
L’uomo, pur carico d’anni - e di ricordi dentro quegli anni - qual’era, stringeva a sé la ragazza dal corpo sottile e delicato, accarezzandone la tenera superficie. E, al contatto delle sue labbra sopra quelle meravigliose che si aprivano ai suoi baci, percepiva nel soffio del loro vellutato risucchio qualcosa che induceva alla incredulità, qualcosa cui fosse impossibile credere, qualcosa come un dio negato nell’atto stesso del concedersi.
Si conoscevano da poco, perciò appariva ancora più inverosimile quel volersi bene così inatteso, così inopinato, che inclinava al toccarsi, all’assaporarsi, alla promiscuità dei vicendevoli umori. Come serpenti copulanti le loro lingue si avvitarono in liquide contorsioni, traendo l’un nell’altra i reciproci sapori… qualcosa d’antico, gli sembrò, in cui si riverberava il piacere della cucina esotica e quello di certe serate felici, dominate da quegli aromi arcani, ma succulenti.
Ora lei scosta la spallina della sua t-shirt e offre il seno perfetto al vortice famelico della bocca di lui, che ci affonda dentro la testa come per curare qualcosa di malcelato, di doloroso che pulsa sulle tempie. Come un lattante attacca al capezzolo il suo bacio aspirante, mentre il caldo sentore delle sue papille su quell’oggetto primevo, essenziale eppure sconosciuto, lo porta alle stelle. Perciò solleva istantaneamente il capo da quella delizia per mormorare: Sei bellissima… Sei bellissima…
 
L’uomo si svegliò e rigirò il suo sguardo fra gli androni vuoti del suo appartamento. Senza voce, senza parole, senza niente da dire. Sì, la casa era vuota. E silenziosa. Erano così strane quelle pareti mute, in abbandono, lì, al quinto piano di una strada pur affollata, vicino alla Bastiglia. Così assurdo quel loro mutismo ostinato dentro una metropoli che, tra centro e banlieu, annoverava più di dieci milioni di anime.
La sua compagna era morta già da diverse settimane. Lui ripensava alle lotte, alle passioni, alle avventure vissute con lei e gli pareva che fossero chimere, chimere alate che volteggiassero colà, nel vuoto. Non si erano mai sposati, non era roba da loro il matrimonio, non ci credevano. Ma adesso ella era morta, se n’era andata, neanche il nome gli aveva lasciato. E quei novanta metri quadri vuoti come un’ampolla vuota dissonavano adesso come chitarre scordate, come violini violacei divorati dall’umidità.
Figli non ne avevano voluti, prima, e poi non arrivarono più. Lasciando un senso di ritardo su tutto che mostrava piuttosto errori ed inettitudine che un supponente rigore logico-sistematico. Gli venne in mente questa parola: situazionismo, e gli parve che fosse morta ancor questa, come la sua compagna.
Ora gli torna alla mente la sua visione, la ragazza meravigliosa che si cala la spallina a offrirgli il suo seno candido, fiorente, vincente. Ricorda quell’aspettativa, quella promessa estatica dei corpi che si offrono reciprocamente il proprio mistero, quel sorgere come piacere della curiosità anelante del mio corpo che cerca il tuo là dove c’è differenza, là ove confluirvi dentro, come un grande fiume generoso che getta nel mare il suo incontenibile impeto… no, no… mai più, mai più quell’impeto sarebbe stato il suo… no, nessuna ragazza più, nessuna poteva oramai più resuscitare in lui quell’enfasi festosa, il suo disperato sogno di felicità.
No. Non sarebbe accaduto mai più.
Così, sotto i suoi capelli ancora lunghetti, ma sempre più radi, e sulla sua pelle graffitata dal tempo, due lacrime scivolarono sui cuscini, lasciando una scia lucente, come menome stelle cadenti cadute nella notte abissale dei tempi.
 

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