Cosette Miserabili - Cap. XII° Sei Sei - Nedda | Prosa e racconti | Maria Savasta | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Cosette Miserabili - Cap. XII° Sei Sei - Nedda

 Sei Sei - Nedda

 

Ci fu un ammutinamento fra le ricoverate, non rispondevano quand’erano chiamate e si rifiutarono di fare le pulizie o andare in Cappella a pregare: fu aperta ribellione.

Furono castigate prima privandole della ricreazione, poi della cena, poi del pranzo: furono irremovibili “o tutte o nessuno” le sentivo ripetere.

Eravamo in quel periodo una trentina di orfane, e almeno una ventina parteciparono all’ammutinamento; le piccole ne restammo fuori, ma almeno indirettamente ne fui coinvolta anch’io.

“Vi lascio anche senza bere” strillava la sorvegliante, ma la monaca campagnola si intromise dicendo che senz’acqua dopo tre giorni ci sarebbe stata una moria di orfane, e così quest’ultime pretesero e ottennero d’essere ricevute dalla grande Capa e impavide marciarono contro il suo studio. Trascinarono anche noi piccole, la numero Uno mi teneva ferma per mano.

“Cos’è che vi turba? In cosa posso aiutarvi?” chiese gelida la Superiora.

<<Qui siamo tutte numerate, escluso lei>> e indicarono me.

<<o tutte o nessuna. Lei non ha la coda, qui siamo tutte uguali e la legge è per tutte>>

“Sì certo, siete tutte uguali e anche lei ha il suo numero. Per ora evitiamo di chiamarla col numero perché è troppo piccola: non capirebbe. Il suo numero è il 6.”

<<il Sei?>> vidi un sorriso di soddisfazione sul volto di tutte, specialmente delle grandi.

<<quando sarà chiamata ‘Sei’?>>

“è abbastanza sveglia, capta subito ciò che si vuole da lei. Prima di quanto immaginate sarà chiamata ‘Sei’. Ma fino a quando non lo dico io manterrà il suo nome anagrafico: Luce.

E ricordate, qui non siete in un campo di concentramento. Che le mie orecchie non odano mai più il detto: siamo numerate. Non siete marchiate o tatuate, vi è stato dato un numero per nostra comodità: ci siete troppe Marie o Concette o Barbare o Carmele o Giuseppine. Se non facessimo così ne chiamiamo una e ne arrivano cinque. Con i numeri non c’è problema: sono infiniti.

A chi non sta bene lo dica subito: il portone è aperto e sarà subito riportata a casa sua. Ma ricordate: questa è la casa di Gesù, chi esce non entra più.”

Le ricoverate erano coscienti della loro fragilità e non autosufficienza, nessuna poteva permettersi il lusso d’essere rimandata a casa, sarebbero andate a finire in qualche altro lager forse peggio di questo, infatti “al saputo tornaci, al non saputo pensaci” disse la numero Uno, e impallidendo si zittirono.

Non ci fu bisogno d’aspettare molto, lo stesso giorno capii che il mio nome era cambiato, ora mi chiamavo Sei.

La Uno mi fece la lezione. “ora ti chiami Sei”

-No, mi chiamo Luce.-

<<Ma assolutamente, sei Sei.>>

-No, sono Luce.-

<<Ma che Luce e Luce. A parte che ti chiami Pietra e Luce è il secondo nome e per lo Stato sei solo Pietra, qui sei stata ribattezzata Sei.>>

-Mamma mi chiamava Luce, sono Luce.-

<<Chi sei?

-Sono Luce

<<No, no, no, sei Sei

Fu tutto inutile, da quel giorno le orfane mi chiamarono Sei. Le monache no, non avevano avuto ancora il benestare dalla Reverenda Madre e si limitavano a chiamarmi “Cosa” oppure “Ehi tu”

Veramente dallo stesso giorno della morte di mamma e del mio ricovero in orfanotrofio, nessuno mi aveva più chiamata col mio nome, lo evitavano. Quando volevano dirmi qualcosa venivo strattonata per un braccio o mi chiamavano “Cosa”

Piansi molto, ma mi restò il pianto e il numero: non l’accettai, ma lo sopportai, feci di necessità virtù e iniziai a rispondere quando mi si chiamava Sei onde evitare castighi e guai fino al giorno in cui una ricoverata non disse:

<<lei è il diavolo, lei è il sei. Per questo il numero era sempre libero, nessuno di noi voleva il sei. Il sei è il numero del demonio. L’hanno appioppato a lei perché è una stupida, non capisce niente.

<<non dire scemenze disse la Uno,  ricordati che tu sei il Sette.

<<si, sono il sette e ho tutti i doni dello Spirito Santo.

<<hai anche i sette vizi capitali, non dimenticarlo.

<<ma non sono il diavolo, lei è il diavolo, lei è il sei …

E la sette dopo aver strepitato ancora per un pezzo si zittì.

Ora capivo tante cose: la Uno era la ragazza grande che poi si monacò. Era una mistica e si sentiva il Padre Eterno, l’Uno è il numero di Dio.

La numero Tre dava consigli a destra e a manca, si paragonava alla Trinità.

La Cinque era sempre in afflizione: il suo numero ricordava le cinque piaghe di Nostro Signore e lei credeva d’avere le stimmate.

La numero Nove aveva una voce stupenda da soprano, era convinta di far parte dei nove Cori Angelici.

La Tredici, una ragazzetta con una leggera cifosi aveva diviso le orfane in due fazioni: una metà credeva che fosse portatrice di sventure, l’altra metà pensava che sfiorandole le spalle vincessero alla Sisal.

La Quindici recitava il rosario dalla mattina alla sera e aveva le visioni, spesso sottovoce e con fare misterioso sentii che raccontava di vedere la Madonna.

La Diciassette, era una povera fanciulla ammalata di pediculosi e col cervello guastato dalla malattia, quando arrivò la raparono a zero; il suo cranio era come la crosta lunare pieno di fosse; chiamarono il medico e questi fece un salto all’indietro: ordinò che fossero bruciati vestiti e capelli e che lei fosse inondata di DDT, cosa che le monache con molta solerzia fecero spogliandola e toccandola da lontano con un bastone e versandole addosso secchi di DDT. La poverina per poco non ci rimise la pelle: morirono tutti i pidocchi e le lenti e rischiò di morire pure lei. Si salvò per miracolo e fu curata con cure specifiche, ma ormai la pediculosi le aveva rovinato la mente. Diciassette era sfuggita come la peste dalle altre ragazze: credevano che portasse iella.

 La più sfortunata fui io: mi diedero il numero più malevolo e disgraziato che potesse esistere.

Da quando conobbi il significato del numero sei, lo odiai con tutte le mie forze. Credo che difficilmente una persona possa provare tanto odio per un suo simile, quanto quello che provai io per quel numero.

Anche le monache cominciarono a chiamarmi Sei, non ero più Luce o Cosa o Ehi tu, ma semplicemente “Sei”

Non mi identificai mai con quel sei: era qualcosa di invisibile e malefico che avevo appiccicato addosso. Il numero non indicava solo noi come persone, ma tutto ciò che ci riguardava; tutte le mie cose avevano il numero sei: grembiulini, vestine, sottanine, magliette, slip...,e ancora quaderni, libri ecc., ecco che allora rubai delle forbicine e tagliai tutti i sei cuciti e con una gomma cercai di cancellarli dalla mia cancelleria, ovviamente creando guai perché i fogli essendo scritti con inchiostro si strapparono, allora completai il lavoro strappandoli del tutto.

Se ne accorsero e fui rimproverata aspramente e castigata; mi rinchiusero in uno stanzino cieco, angusto, freddo e umido. Mi terrorizzai sentendo i topi che ballavano allegramente sul controsoffitto, mi rannicchiai in un angolo quasi in posizione fetale e piansi tutte le mie lacrime.

Sentii una voce dietro la porta: “ ‘nappaura, nun ti fannu nenti. Ci sugnu iu…’ che vuol dire: “non aver paura, non ti fanno niente, ci sono io…”

Era la voce di Nedda. Restò dietro la porta dello stanzino finché non fui liberata.

Quando uscii dal tetro ripostiglio alla vista di Nedda scoppia in lacrime: era un pianto lungo e lamentoso, volevo morire, scomparire … non trovavo alcuna soluzione ai miei affanni.

Nedda mi prese la mano, la sua mano era piccola e calda. “nun fari d’accussì, ca fa chiangiri macari a mia …”

La mia mano restò nella sua finché non mi fui calmata.

Nedda

Nedda era una bambina dal volto rugoso, era entrata in Orfanotrofio quasi contemporaneamente a me, una ventina di giorni dopo. Aveva circa cinquant’anni ed era alta poco più di un metro e dieci.

Non soffriva di nanismo, era piccola e basta. Purtroppo anche la sua mente era rimasta piccola. Ragionava come una bambina di tre, quattro anni al massimo. Il suo cervello era nel cuore: era tutta e solo cuore.

Era stata la gioia e il dolore di sua madre: “che ne sarà della mia bambola quando io non ci sarò piu? Chi continuerà a giocare con lei, a lavarla e vestirla?

Sua madre era anziana e malandata in salute e Nedda era il suo cruccio perenne.

Morì la madre della bambola rugosa e fu sepolta nella nuda terra fra gli indigenti.

Nedda non capì.

Lo stesso giorno vennero all’Ofanotrofio Sindaco, Parroco, Farmacista Benrdicite e il Dottor Costante a perorare la causa della piccola:

“Non può restare da sola, è incapace di badare a se stessa, morirà se non c’è qualcuno che si prende cura di lei.”

“Si potrebbe portare in un Ospizio per anziani

“Non ha l’età, e non ci sembra il posto adatto. Nedda è rimasta bambina e le piace tanto giocare.

“E guardi Madre che se lei l’addestra, può farle tanti piccoli servizi, come comprare uova e verdure, accompagnare le bambine a scuola e andare a riprenderle.

“Non sarà assistita dalla Regione.

La Reverenda non voleva Nedda, pur parlando con cortesia si intravedeva la sua collera: era diventata gialla e i suoi occhi mandavano fiamme gelide.

“Tranquilla Madre, abbiamo pensato anche a questo: il Comune le verserà un piccolo sussidio mensile per le necessità di Nedda, e poi scusi dov’è la sua carità cristiana? Lei che è francescana ci insegna che San Francesco amava gli ultimi e si faceva in quattro per loro.

Chi parlò così era il Sindaco rosso del paese che la Superiora vedeva come il fumo del diavolo; si sentì punta sul vivo e il suo volto cambiò colore: ora si fece rosso dalla rabbia.

Nedda restò in Istituto. Arrivò con le sue poche povere cose: un cambio di biancheria, la palla, una vecchia pupa di pezza, una corda sfilacciata per saltare.

Erano i suoi tesori e li custodiva gelosamente in una scatola di scarpe assieme ad alcune biglie, delle figurine, ritagli di stoffa e fili di lana.

Le monache presero in parola i Notabili del paese e addestrarono Nedda proprio come si addestra un cane: con rimproveri, cinghiate, zuccherini.

La piccola anziana imparò bene: andava a prendere le uova, comprare la verdura, fare la guardia al portone, accompagnare e riprendere le bambine a scuola.

Perse il sorriso e aveva spesso gli occhi rossi.

Piangeva, e nessuno la consolava.

“Nedda, Nedda… scimunita, dove sei? Vai subito dal fruttivendolo, tieni i soldi stretti nella mano e non farteli rubare.

Nedda si asciugava gli occhi col grembiule e correva.

Nedda non fu mai amata o coccolata, ma sempre bistrattata: era la servitorella di tutti

Aveva la memoria corta e dimenticava subito perché aveva riso o pianto con la massima facilità.

Le bambine ridevano sentendola parlare, ma lei non se la prese mai; aveva una strana voce non da bimba ne da donna: parlava in falsetto strascicando le parole e ripetendole quattro cinque volte.; non era balbuziente, semplicemente parlava così.

Nelle lunghe sere d’inverno le insegnarono la maglia, la poverella sudò sette camice e finalmente dopo un paio di mesi riuscì a fare il punto dritto, solo che i punti non le erano amici: o scappavano o si moltiplicavano. Iniziava una sciarpa con venti punti e dopo un giorno se ne ritrovava trenta. La sciarpa era sbilenca e nel frattempo finiva la lana. Con tanta pazienza la scuciva raggomitolandola e ricominciava da capo. Sempre così.

Quando non aveva voglia di lavorare la sua maglia giocava in silenzio con le sue figurine o la vecchia pupattola. Fu sempre compagna dei nostri giochi: al cerchio, a nascondino, o con la palla o a zappettino.

Quando i bambini crescevano e smettevano di fare giochi infantili, lei continuava con le nuove generazioni: tutti i bambini di Kars di ogni tempo giocarono con lei.

La calda mano di Nedda sempre più piccola, rinsecchita e rugosa, asciugava le nostre lacrime; le sue braccine ci avvolgevano quando eravamo disperate e il nostro pianto era inconsolabile, allora gemeva cantando piano strane nenie incomprensibili fino a che i nostri singulti diventavano sempre più fievoli fino a smettere del tutto perché ci addormentavamo sul suo cuore.

Nedda non mangiò mai al refettorio ne con noi, ne con le monache; le mettevano il suo pasto in una ciotola d’alluminio tutta ammaccata e poggiavano la ciotola su un ceppo del ripostiglio; era sempre sola nei suoi pasti, solo qualche gatto le faceva visita mettendo in fuga i topi e lei condivideva col micio il suo misero pranzo.

Quello che mi colpì in quel tempo  che ricordo sempre con sdegno e pena è che nella stessa ciotola versavano insieme cibi diversi, compreso il tozzo di pane.

Lei non capiva, voleva venire con noi e piangeva nel suo angolino.

Fu graziata dal “numero”, mantenne il suo nome “Nedda” fino alla morte.

Nedda ebbe la fortuna di nascere bambina, restare bambina, morire bambina; e la sfortuna di non essere capita e trattata con amore e tenerezza come si fa con i bambini.

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