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La vita negli stivali

 
Era il tempo della tumultuosa pubertà, la guerra era già abbastanza lontana da costituire un ricordo, quando cominciando a sapere di eroi, miti, battaglie antiche e recenti, presi a chiedere a mio padre di raccontarmi i particolari della guerra e della sua prigionia in Germania. Non ne parlava mai, a meno che non l'abbia fatto con mia madre nell'intimità, nessun dettaglio se non la generica lamentazione delle pene sofferte, dei disagi, della paura e dell'immane fatica di lavorare all'addiaccio con pochissimo cibo nello stomaco. E minimizzando con un flebile, E' acqua passata, parlava d'altro quasi si trattasse di cose delle quali non andasse fiero o non avesse diritto a rivendicare come valide. Una cosa umiliante, in qualche modo. Non vi fu mai una espressione di fierezza per aver subito un peso così grande, che anche la sconfitta ha un suo valore, se hai dato nel confronto quel che potevi.
Era ancora il tempo in cui, specialmente ai maschi, si insegnavano valori come il coraggio, la forza, la lealtà, anche una buona dose di imprudenza che si legava bene alle prove di coraggio nella vita quotidiana, per cui credo capisse il mio bisogno di sapere come aveva vissuto quella drammatica esperienza. Quella prova di carattere, in fondo.
E la prendeva sempre larga, sperando che mi distraessi su alcuni appetibili aneddoti di vita cameratesca, inezie e facezie, sebbene incombesse loro il dramma della coazione fisica e morale e non chiedessi di approfondire.
Ero caratterialmente introverso, malinconico alle volte, e le manifestazioni disinibite mi affascinavano, invidiavo chi ne era capace ed ero sempre incuriosito del come fosse loro possibile, quale dono o capacità peculiare possedessero per essere cosiffatti. Per cui ne cercavo le tracce in chiunque, specialmente in lui che volevo le possedesse e quindi, potessi aspettare di averle anch'io.
Così una volta ancora, standogli di fronte, distraendolo dalla lettura del quotidiano, chiesi... E lui, Vedi quegli stivali che hai ai piedi? Era inverno, pioveva da giorni, stavamo nel fango in quelle misere scarpe che ci aveva dato lo Stato, giusto per una passeggiata lungomare, avvolte in pezzi di coperta vecchia e riempite con lembi di stracci di lana attorno ai piedi per ripararli dal freddo, la notte, quando non li potevi battere per tener attiva la circolazione sanguigna. I tedeschi di tanto in tanto distribuivano capi di vestiario, anche usato e riciclato, per non farci congelare. Una mattina entrò nel campo un autocarro, quello dei rifornimenti. Lo circondammo, eravamo qualche centinaio, tutti avevamo bisogno di qualcosa. Un sergente tedesco che si ergeva sul mucchio della roba, cominciò a far volare alla rinfusa sulle nostre teste, giacche, cappotti, scarpe e qualche paio di stivali: un salvacondotto per la salute, per coloro che li avessero posseduti. Sbracciavamo tutti qua e là come affamati al lancio del pane in una situazione di carestia apocalittica, cercando di afferrare qualcosa. Fui colpito al petto da qualcosa di consistente, duro e lo strinsi a me, prima di sapere di che si trattasse: un paio di stivali, legati insieme da un cordino. Subito fui aggredito e strattonato da chi tentava di privarmi della mia fortunata conquista. Per difenderla meglio mi lasciai cadere bocconi nel fango sempre tenendola stretta. Ero furiosamente determinato, costasse quello che costava, a non mollare la presa. Era una prova di forza, in fondo, passiva se vuoi ma date le circostanze, sempre forza era. Mi percossero con calci, mi calpestarono e non so se ne sarei uscito vivo se i tedeschi non fossero intervenuti. Quegli stivali m'hanno salvato, riportato a casa e non solo camminando. Per me fu una vittoria.
Quegli stivali che io appena ebbi il piede giusto calzai sempre, fino a che furono importabili decentemente. Me ne innamorai da subito, come fossero una insegna cavalleresca, forse ne sentivo inconsciamente il fluido particolare insito nella loro insospettata storia, e ne fui sempre fanaticamente fiero.

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