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La città dei cani

Senti giovanotto, disse Lupino, un ibrido di tutte le razze già in età avanzata, con spiccata prevalenza di pastore tedesco di pelo grigio, non senza un sordo ringhio di sottofondo, Lascio i miei odori su questo lampione da anni, in questo territorio le cose vanno come voglio io, io decido cosa e quando, non è che adesso arrivi tu, bello bello, e vuoi coprirmeli senza morso subire. Inteso l'antifona? Sei nella città dei cani, non degli uomini, le regole le fanno i forti. E quella collana lucente non è un passaporto efficace, qui.
E Duke, un molossoide giovane e prestante, bianco e nero, con un collare da sballo tutto strass e ottoni, segno evidente di una obbedienza amorevolmente ricambiata, Da sempre i maschi della nostra specie palesano così la propria presenza, non minacciare. Sono più giovane e non mi fai paura. Ribatté, arricciando la pelle del muso e scoprendo i canini. Lupino alzò il pelo del dorso, facendosi più grosso e alto, con la testa minacciosa abbassata gli girò intorno annusandolo dappertutto. Gli odori sono importantissimi, trasmettono messaggi incredibilmente veritieri sullo stato psicologico dell'altro. Anche Duke, eseguì il rituale dell'annusamento. Le code ritte, i passi lenti e studiati per trasmettere sicurezza nella propria forza ma, entrambi, ancora incerti sul da farsi. La solita sceneggiata? Ottenere il massimo con la minore spesa. Una bella esibizione, se fatta bene, può indurre l'altro all'abbandono, alla resa – onorevole – in cambio della incolumità di entrambi.
Ma tutte le cicatrici che Lupino aveva sulla pelle, presero a prudere. Ripassarono nella sua mente tutte le baruffe fatte per affermare la sua preminenza nel rione di fronte a giovani pretendenti che volevano conquistare il diritto ai migliori bocconi dei sacchetti di rifiuti e a riprodursi con le femmine disponibili. I giovani cani nati qui recavano tracce del suo impegno: nel pelo, nella stazza, nel carattere. Si vedeva che erano suoi figli. Non c'erano, con loro, rapporti affettivi, qualcuno lo aveva sottomesso quando si faceva troppo invadente, con qualche femmina aveva perfino fatto cucciolate. Era il suo regno.
Questo lo determinò ad attaccare. Si alzò sulle zampe posteriori, ricadendo con la bocca aperta e gli incisivi sguainati sul collo di Duke lì, dietro le orecchie. Cercò di rovesciarlo a terra ma quel grosso collare, che lui aveva liquidato come simbolo di servilismo, ora proteggeva le carni del suo avversario e rendeva la presa poco efficace. Con uno strattone quello si liberò e a sua volta addentò il collo di Lupino, da sotto, riempiendosi la bocca di pelo ma con brevi scatti e le mascelle larghe, arrivò a stringere la carotide. Riuscì a rovesciarlo lo teneva tra le anteriori e stette nella presa in attesa della reazione di Lupino che non poté far altro che dimostrare con l'inerzia la sua resa. In pochi attimi Duke capì di aver vinto e aprì le mascelle. Il codice di lotta canina voleva che accettata la sconfitta bisognava lasciare libero il campo. Lupino, ringhiando sommessamente, con la coda tra le posteriori, si allontanò e Duke rinfrescò la base del lampione con nuovi soddisfatti effluvi. Tutto pareva cambiato, il totem aveva un nuovo sacerdote e si sarebbero visti cuccioli bianchi a toppe nere d'ora in avanti nella città dei cani. Questo fece sì che, in fondo, nulla cambiasse.

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