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Martello tragico

Non amo le disperazioni e nonostante le mie amarezze, non mi considero "disperato", mai.  Salvo certe volte, certe sere, entro certe coordinate, sotto certe lune e certi cieli bui, stanchi, rassegnati. Considero che le cose umane, tutte, presuppongono una certa soglia,
oltre la quale non sono più quelle che ce l'hanno condotte. Passata tale soglia, difatti, divengono altro e svaporano nel dimenticatoio. Perciò è un limine, un’"alea" appunto, e porta angoscia. Resta dunque il Nuovo appena coniato, che non si sa cosa sia, non si sa dove vada, ma che lascia almeno una scia fertilizzante sul campicello delle speranze. Delle tenui e alate speranze che non possiamo stancarci di innalzare al cielo, pur sapendo oramai che non v’è cielo da volare sull’ala della felicità, non vi sono estasi né beatitudini al di fuori della nostra addolorata ostinazione di farli esistere…
Così lo struggimento s’inarca sopra i nostri cieli appena aperti e come una musica triste precipita sui tetti che non ci sono, che non abbiamo costruito, e ci travolge nel flutto fremente di lunghe piogge opache, di piogge come stagioni o come stillicidi, battenti mesi anni o istanti con l’indifferenza infinita di una eternità tutta uguale, monotona, dolorosa, impassibile, arcana… Ecco, silenzio. Entriamo nella stanza solitaria ove lo scibile ha tratto dalla polvere la propria sinderesi – che tuttavia polvere ritornerà. Dietro il lungo tavolo dalle bronzee gambe intagliate, la pendola si erge come una piccola torre, specchiandosi sulla vetrata distesa su quelle gambe barocche. Tutto è immoto e nella luce diafana e omogenea non volteggia neanche un batterio, neanche un aereo pulviscolo. Soltanto dalla torre si leva un palpito torbido, scandito, indefettibile. Segna secondi mai passati, arrampicati sull’esistenza senza tuttavia permetterle di trascorrere. E’ la ripetizione infinita dell’unico avvilito istante mai vissuto, è il martello tragico dell’esistere che brucia scintille d’infinito, ma lo fa con disincanto e con agnosticismo, come se ritmasse col suo cupo rimbombo il moto perpetuo di una coazione a ripetere. Guardando in su, la volta è sfondata e un nubifragio di stelle vi si getta nell’occhio esitante, nel vostro triste sguardo che ha avvistato l’eternità e l’ha scoperchiata, l’ha sputtanata, mostrandone la sicumera e la ricompensa vuota e nulla ch’essa concede ai mortali.  
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E così sono triste, ancora più triste, nel triste firmamento delle stelle precipitate nelle oscurità, nei silenzi logorroici che s-parlano di te, perché sei lì, perché ci vuole almeno un capro espiatorio e ognuno lo è a se stesso… dio… la contraddizioni si urlano addosso le une all’altre e tacere sembra l’unica risposta, e siccome sono tuttavia contraddizioni, urlano zitte e zittiscono anche coloro che il loro urlo assordisce. Così, sordi dei retorici torrenziali silenzi di contrari nemici ed eloquenti, giriamo il muto sguardo altrove, ove sia resa pace alla guerra dei mutismi frastornanti, degli incubi corali sbraitati dalle basse corde infrante dell’atonalità – perché se è orrendo, se è disumano, il grido si strozza in gola e si converte in un niente che spacca i timpani, come urla di Munch esplose dentro le vostre tempie. Dentro la mia testa smarrita, cui non so porgere aiuto, cui non porto sollievo alcuno, che non so tirarla dietro ai miei passi e ad ogni inciampo, ad ogni intoppo mi scivola dal collo e ruzzola nel fango…    

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