Dal libro dei vivi ignari di sè | ferdigiordano

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Dal libro dei vivi ignari di sè

 
1
 
Si sta così tanti sulla terra
che spesso mi chiedo
dov’è presa tutta l’argilla. Se viene da sola
a fare greti alla vita o dalle sponde degradi nel letto.
 
Lento e ignoto, accavallo le gambe
come un fiume i riflessi, un fiume pieno
di ginocchia piegate al sacramento
del risveglio: salve vecchia luce!,
e la vecchiezza è in questo giorno
da diverse settimane, ormai.
 
Pensiero che cambia, allora. Magari
dei miei piedi contro i piedi dell’altra
ed entrambi sostegno capovolto
consapevoli della frescura che ogni nuova
fiamma porta in sé (ho coscienza
che una passione sia il vero muscolo
della data).
 
Intorno la supremazia del calendario:
l’avvento di tutte le facce possibili
come acqua sul volto.
 
 
2
 
un germoglio unisce appena
le caviglie irrequiete
cresce veloce e sprigiona la chioma
 
non lega, appoggia
due punti di fuoco nell’ombra
perché nel fuoco ha la sua fotosintesi
 
spiana l’evidenza dei percorsi
compone nuovi angoli di luce
e modulando le foglie ad arte
nasconde e libera
 
 
          2.1
 
          ma poi che accade alle consorterie
          dei teneri petali? Fanciulletti inibiti che provano
          posizioni di fuga dalle gabbie di rami;
          cavallerie di rugiade che hanno zoccoli liquidi
          e un crine effervescente, esposto alla motilità
          filiforme, sedimenta
          i minerali del cielo dell'aria e del vento
          con il rito pagano del lascito
          secco, sereno, alla terra.
 
          Io non credo a questo astruso racconto
          benché lo osservi e ne parli definendomi in gergo
          un tronco di carne, un pendulo brown
          assiepato nei sensi.
 
          Piuttosto la vita contiene promesse
          di peronospora che imbianca, mangia la foglia.
          Così si mantiene l'ambiente
          e, forse, durerà la muffa.
 
 
3
 
sale.... di fretta,
dalla sepoltura sorge
e il lieve crepitio della vita
tutto si espande.
Esplode come acqua di sorgente,
fresco il pensiero ricade
e segna l'orizzonte
bersaglio di desiderio e ricerca
..di voluttuosa primizia.
 
 
4
 
...e voi
(voi)
cosa ne dite?
Con quei bicchieri di fiele sorbiti,
ubriachi di parsimonia
avrete sempre quella linea benevola d'orizzonte
oscurando le ombre con le pietruzze
le stesse
(sì le stesse)
che vi siete estratte dalla pianta dei piedi
così bisognosa di riposo
ma avete mai percorso chilometri di vita zoppicando di negligenza?
 
 
          4.1
 
          Per quanto la zoppia sia una stortura del passo
          non consegue che camminare, ceduta la gamba, renda colpa
          la negligenza. Si guardi alla chela: un granchio
          che ha perso dal fianco ogni uso di zampe
          sembra un'onda violenta. Costringe il corpo martire
          all'idea della giostra, e ruota - sì: ruota prendendosi in giro -
          finché la rabbia non lo inserra nella crepa d'origine.
         
          Così è la vita, come nelle alghe sommerse:
          intramare le correnti seguendo l'impulso
          che ci è antecedente.
          Comprendo le zampe, del resto,
          che non prendono piede quaggiù.
 
 
          4.2
 
          può regalare salvezze il deserto:
          non si cura della camminata zoppa
 
          lascia il passo profondo staccare
          sulla duna l’accenno dell’altro
          e lo ricopre
 
 
          4.3
 
          si mangia le illusioni il viandante scalzo
          celando le sue orme,
          ma, come segugi appresso,
          gli uomini di morale ne sentono l'odore
          e si fanno forza come il mistral che cresce sulla vela
          e soffiano,
          soffiano di prepotenza le sentenze scritte senza inchiostro
          nei secoli
          ...e nei secoli continua senza sosta quel passare controvento,
          le mappe sono benevolenze d'intenti
          e le linee racchiuse dentro al cranio
          portano a una meta orfana di confini
 
 
         4.4
 
        Lo sbilenco del lupo
 
        l'inciampare equilibri          
        degli zoccoli fessi
 
        zoppi di bisognosa fame
 
        il vecchio
        plasmato nell'uso
        non ha anche
 
       eretto e retto è retto
       molla la schiena
       china, all'erta
       è tardi.
 
 
      4.5
 
      è tardi,
      lo si doveva pensare prima.
 
      Ah!bastardi i ritardi,
      le pensiline,
      i treni che mai arrivano,
      le mete da raggiungere,
      appuntamenti in fumo per minuti secondi,
      i segni sul calendario di lune
      e la preghiera che il ritardo sia un errore,
      scherzi ormonali di natura
      e i pianti nelle notti senza lacrime,
      il pensiero del peso all'ombelico
      e la gioventù bruciata,
      l'amore non definito in cerca di una maschera
      e il mercato in testa che brulica
      ...il brusio
      (quel brusio di domande)
      ma è tardi ora
      e presto la coscienza sarà alla sbarra.
 
 
      4.6
 
      E' tardi!
      Dite forse per l'attesa?
      Perchè crocifiggere il tempo
      alla sua fine
      e cedere le grandi promesse
      agli stessi ladroni?
      Spingere il cuore
      sulle rotaie fuori uso
      non sarà mai una conquista
      ma la limpida certezza
      di vedere il sole...sorgere
      su due linee parallele.
 
 
5
 
Ammetto che vivere tralasci la consapevolezza
degli altri viventi, intanto certificherebbe l'utilità dell'anagrafe.
Non che tutti gli impiegati abbiano comunanza con gli iscritti
(molto spesso si ignorano persino i concomitanti, i prestatori
di biro, i profusori del buongiorno e buonasera - siamo tutti ignorati,
altro che ignoranti!) pertanto non si richiede una memoria
a latere se non per le omonimie dei componenti nelle descrizioni.
Perchè un nome è un nome, ancorché trattenuto
a labbra serrate, spesso indica l'area in cui parcheggiamo il pensiero
con una difficoltà di manovra crescente non per l'ora,
quanto per gli spazi tra le congiunzioni.
Diventa come una escursione alle pendici dei corpi
se davvero lo sussurro per ricevere risposta e risponde
l'intera cordata vuol dire che siamo in uno spazio vuoto
tra la ferita e la benda.
 
Ma a parole diventa semplice incontrarsi di spalle, senza guardarsi
certe volte più che sanare la piaga.
 
 
          5.1
         
          I sussurri s'intrattengono
          su bocche affamate
          il cibo che aspettano
          non vuole sapore
          ma un suono che sazia
          i deboli pensieri.
 
 
          5.2
    
          eppure, è nello sguardo che rimbalza nell'occhio dell'altro
          che trovo il giorno, la forza di muovere
          un passo dopo l'altro, verso l'a fortiori nulla
          che m'attende, per-scelta. nel suo nome scandito,
          diviso in sillabe e fonemi, reso segno
          di resa antica, totale; ammesso il saccheggio,
          la depredazione infinita.
          così potrei dire d'aver vissuto. forse saremo altro
          da ciò che siamo, soli.
 
 
                    5.2.1
 
                    ciascuno ha un nome
                    da portare silenzioso sulle labbra
                    come un sortilegio
 
                    una formula che annulla lo specchio
                    e chiude le dita al conto
 
                    non strette in un pugno
                    ma morbide a non dare peso
                    anzi, a volte, a quel nome si aprono
                    e fanno sulla terra un'ombra
                    proprio come di ali in volo
 
 
                    5.2.2
 
                   Provare una criniera, seguire il furore,
                   ma intenerirsi alla cadenza dei muti, nella pagoda
                   in cui anelano voce per urlare preghiere
                   e costantemente sopravvivere
                   all'incenso che ti vorrebbe cenere
                   dimenticato nei lazzi degli amici
                   però inserito negli esempi
                   da lontano, da più lontano ancora:
 
                   questo fa del nome un flusso continuo
                   una sorgente che gorgheggia.
 
 
          5.3
 
          Era la Roma dei priori
          abbastardita dai barbari
          gonfia di tutto
          l'eredità di Augustolo
 
         caprari che pisciavano
         ad arco sull'arco
         come prima dell'arco
 
         sti millenni passati
         per insegnare la fiacca
         l'occhio bovino
 
         la resa del sacco.
 
 
         5.4
 
         Nulla è più vero che l'assedio e la fiamma. Poi
         anche il sotterfugio della taglia
         che rende crudele il mercenario. Nello scambio
         tra sorriso e ghigno, nemmeno i denti guadagnano
         luce. Ho portato a lungo il desiderio di un Fratello
         sulle spalle, trascorrendo tempo nella Porziuncola
         del suo petto, timorato per la santità degli agnelli
         inconsapevoli, dei galli alle termopili del forno, dei maiali
         insaccati, con il fiume rosso dalla gola, per tutti quei respiri
         che non hanno più polmoni, dei tori, dei vitelli, delle lepri,
         dei tonni, delle quaglie, di ogni specie marina o aerea
         e persino dei metalli derubati dai polsi.
         Ma la grazia, credetemi, la grazia è una virtù
         degli alberi, e qualche filo d'erba.
 
 
 
 
6
 

ritratto di M.Maddalena
 #
Siamo polvere di stelle...
 

ritratto di Sara Cristofori
 #
velieri di vita
su storie incomprese
riflessi di anime 
di ignote realtà
fantasmi a noi stessi
in mondo parallelo
sconosciuti scopi
ignorate dignità
piegati a speranze
senza alcun fondamento
avanti così forti
guerrieri perdenti sempre
nella derisione divina
senza indurre pazzia
nonostante
 
 
 
 

ritratto di Antonella Iurilli Duhamel
 #

Molteplici pazzie

alcune divine altre miserabili

in  delirio ci innalzano  sopra le righe

di rassicuranti morti giacigli

a cui vendiamo

un’anima di libertà.

 

ritratto di Sara Cristofori
 #
giacigli di finto sonno
ci attendono nel buio
-si muore per sempre-
dove irrealmente
potremmo sognare la vita
e forse sognando
riuscire il senso
a sfiorarne
 
 

ritratto di Antonella Iurilli Duhamel
 #

La luce di una nuova speranza

riscatta le  carni inebetite da un  dolore

ostinatamente negato fino a  strapparsi il cuore

e la mente complice irresponsabile

assolve il suo ruolo  ingannatore.

Bisogna pur sentire di essere integri,

che mai ferita avvilirà le bianche carni,

credere  come ignari fanciulli

all’alba di un nuovo giorno

e intimamente sapere che mai sarà vero.

 

ritratto di Sara Cristofori
 #
Non più forze a trascendere i giorni
verso albe illusorie di fede
tanto soli costipati nel dolore
di una vita per tutti negata
a sperare nel fondo più fondo
sofferenza non abbia il momento
fra tutti il più solitario
allor che quella fiamma di luce
troppo amata perché troppo bella
sarà per sempre spenta,
per sempre…
...è così tanto tempo.
 
 
 

ritratto di Antonella Iurilli Duhamel
 #

Tenacemente  una morsa

rallenta i battiti e gli slanci innocenti del cuore,

la fine è  una certezza innegabile

incisa nelle tue carni.

Il baratro paziente  sotto i tuoi piedi

attende la caduta e il volo oltre l’ultimo battito d’ali.

Un  attimo più in là intatto e fiducioso

un altro giro di boa,

ed è ancora   mare aperto.

 

ritratto di Sara Cristofori
 #
Marinai non vi furono
a tornare col legno nelle mani
nei porti sotto al sole
mai restituirono i flutti
nessun’anima né un corpo
nel lino delle vele
per donare la speranza
solo sempre canti blasfemi
o illusi di preghiere
l’esorcismo del terrore
per quella condanna
non sai come meritata.
 
 

 #
Ti ho intramata, vita. Ho usato le lancette
e ordito ricami sulla tela ruvida con cui ti presentavi.
Sei, vita, una lunghezza ignota e muta: hai carpito
fili, tirato nodi e stretto asole. Sei apparsa
buia sullo scoglio, ruggente e calda in piena sabbia.
Mai stanca, mai compiutamente lirica
e mi cantava il sangue in ogni tua sommossa
e il suo naufragio.
 

ritratto di amara
 #
 
da ogni asse una scheggia torna al mare
si incaglia nel tessuto steso sull'onda
come a riprendere fiato
 
così, sodali, attendono
ora più forti
che monti l'acqua in frange bianche:
 
saranno mani da esplorare
per comprenderne il polso
e sul battito guadagnare ancora il largo
dove decidere la direzione
 
la scheggia sarà timone
e il tessuto comprenderà il vento
 
 
 

 #
Si alzano, si alzano dai cognomi tutti gli antenati
i precedenti, a schiere, di schiena più alti dei trifogli
si alzano dritti come i fanali che la luce ha lasciato
monchi, schegge di selce, frecce infisse nel sentiero.
E subito serpeggia lungo la dorsale del cammino umano
la storia del colore meno salvifico che ci sia:
il biancore nitido dell'innocenza.
Si alzano, si alzano gli scheletri dai cognomi
ma quanto è difficile riconoscere tra loro
il primo comune scarnificatore
che malamente ara.
 
 
 
 

ritratto di selly
 #
E fu l'inizio, nello sguardo,
il muto assenso delle ossa
l'appartenenza viva alla carne
e l'urlo
che sbava dagli occhi di passati arrampicati
di come l'uomo rimane senza sangue
nella pelle che è certezza
L'oscuro sapere del fu
si aggira indiscreto nelle ombre di un viso
nel palmo acerbo di un nome
nelle orbite venate d'ignota arteria
 
 

ritratto di Antonella Iurilli Duhamel
 #

Ne avevano preso le sembianze apparentemente umane

ma erano solo  ombre  indugianti sullo sfondo

di una dimensione onirica priva di carne e di sangue.

Accorati struggimenti per ciò che poteva

forse essere e mai sarebbe stato.

Ammenda, la scarsa coerenza di destini monchi esibiti come

cambiali da riscuotere all’occorrenza.

 

 #
Ed è davvero così la trascendenza del vuoto. L'eredità
non appare ai saliti al di là della seconda anagrafe se non
vuoto che si veste a festa e, oltre la sua vetrina, il nulla
è l'artificialità della luce messa a bella posta
sui volti per la circostanza
mimare il lutto del perso, benché mai davvero sperperato.
Quindi, nessuno davvero ci chiamò in vita
nè fummo scelti, semplicemente apparimmo, apparvero
appariranno combinati; immani e trascesi.
Coniati all'occorrenza, spesi per poco.
 
 
 

ritratto di Antonella Iurilli Duhamel
 #

Spesi per poco nel migliore dei sensi,

e molto  più spesso, spesi per nulla.

Vuoti a perdere, in balia di calci distratti e registri sommari.

In credito/debito di cura e di amore

a corto  di fiato, di cuore, e cervello

non possono mai oltre

un angusto pensare.

 

 

Se l’amore non fosse il grande assente

la paura non sarebbe solennemente presente

 

 

Non tutto risplende alla luce del sole

Molto è più sotto la crosta tangibile

e immediatamente visibile.

È un punto interiore, sapere di cuore

trama leggera,  abbraccio prezioso

di mille  e ancora  mille cuori nascosti

 

 #
Quello che appare dell'involucro racconta che
non tutte le strutture si possono congiungere:
una chiarezza sarà comunque negata dall'enigma
della passione. Il marmo non sposerà l'aria
che le gongola intorno. Non si trasforma. E a ben vedere
la sua polvere fine, nemmeno pretende
il cognome leggero. 
Ecco che un viso e un altro ancora e poi
miliardi di pietre mobili, con naso e occhi
ed altri accessori, per quanto composti
non mostreranno lo stesso squarcio:
ogni involucro ha una lama singolare
che lo apre a lungo, senza uscirne.
 

ritratto di Antonella Iurilli Duhamel
 #

Aveva preso a credere ad ogni parola 

uscita dalla bocca di chi stimava al di sopra di lui.

Una totale eteronomia

l’assegnava al  fanatismo più cieco.

Nessun dubbio o perplessità.

Nessuna deviazione dall’illusione di forza e potere,

pena l’evidenza della sua  infinita fragilità.

Sordo e cieco a qualsiasi confronto,

capace  di tollerare solo la  piena adesione.

Sprovvisto della  cognizione del grigio

soffocato  nella  morsa del suo   bianco e del suo  nero.

Disinteressato a tutto ciò che esula da progetti integralistici,

gode e si gloria della propria ottusità.

Passa dalla propria auto flagellazione a quella altrui,

ritornando sistematicamente  a peccare e ad espiare.

La  sua mente è la cassa di risonanza di falsi anatemi

Se cosi non fosse,

piomberebbe nell’assoluta disperazione

di un cuore incapace  di battere

anelando  a un nuovo Medio Evo.

 

 

 
 

ritratto di Stefania Stravato
 #
spigoli di pietra contornano gli occhi,
la conca stretta del petto
 
non conosce le discese al sole
che portano a mare, le siepi dove si infila il vento
 
non lo trattiene in un canto circolare, il suono di una corda 
di un fiato, una percussione o un tintinnio
 
è servo fedele solo del tocco abbrunito che dà
il principio e la fine ad ogni giorno
e dell'inganno che risplende d'oro
le altezze delle navate.
 
 
 

ritratto di Antonella Iurilli Duhamel
 #

Inganni e non dolci promesse

lambiscono l’ anima

votata alla guerra.

 

Le carni di cuoio indurite

tracimano  cuori e  colpevoli  battiti.

 

Votata ad un dio di odio e governo.

sorella nemica di madre assassina.

 

Corazze e non carezze le furono corredo il giorno

in cui  andò sposa  al suo promesso  destino.

 

ritratto di Manuela Verbasi
 #
in sospensione
su progetti a triangolo
traslava acuto
 
dentro letti bianchi
solitudine e neve notte
 
chiuso il bottone
la camicia, andavi
a denti stretti
 
freddo di mani nei guanti
 

 #
L'essere trapassato futuro, il barbaro coinvolto nell'assedio
del senso comune. Il distruttore delle costruzioni
che lo hanno preceduto: già sul gomito
dell'angelo che lo portò, ordinava le ali, predicava
il dominio delle costole dei monti, delle valli e dei fiumi che 
lo hanno atteso, lo accolgono con dovizia servile. Il fumigatore
dell'avverbio possibile, vuoto e gretto nelle sue magnificenze
intolleranti, rese leggi superiori, recinti.
Quello che si esautora dal compito degli aceri e degli abeti, quello
che secca il timbro dell'allodola, spettina la neve glaciale, il cristallo
millenario disciolto dai rifiuti: il rifiutato da se stesso, macina
polveri fini del suo contrario, non lo ammette per non doversi rifiutare.
Quello che all'uscita della sua casa ha posto uno specchio
in cui non appare uguale.
 
 

 #
Si riconosce il rumore per vivere. Ma i fatti sono sordi
non ci ascoltano. Vanno oltre, sopra o sotto o di fianco.
Soprattutto, per il resto ci ordinano.
                                                      In un prato malamente
sottomesso da rifiuti aggressivi, un’erba ingiallita non tiene
conto della stagione, è stinta e secca anche nell’umido.
La calpestano squallidi oggetti che hanno avuto in altri luoghi
persino calore, una padronanza di affetti, qualche celebrità
d’occasione.
                   Questo ammasso è a dune, se ci fosse
                    un vento buono,
non spargerebbe i ritorni delle voci tra quelle cime
in macerie, di persona.
 
 

ritratto di amara
 #
 
 
 
 
saper crescere germogli curiosi
dove si da per morto il terreno
parlando all’inutilità delle cose
senza cercare un riflesso
 
e lasciar correre su
per i pilastri venati
il piacere di radici antiche in cerca d'acqua
 
questa è salvezza, vorrei dire,
ma è soltanto quella di oggi
 
 
 
 

 #
C'è un solo tempo. Lo indichiamo oggi ma è sempre.
L'orologio venne solo dopo, molto dopo che il sangue
iniziasse la conta nel circolo del suo spazio.
Il sangue satellite, il sangue orbita.
Un universo intero ruota nella pelle, mondi ovattati
e minuti, di grandezza straordinaria, così immensa
da sembrare inconsistente. Mondi minuti per tutte le meridiane
del corpo.
Salvezze autarchiche che si propagano a lungo
e in largo evaporano nell'aria
per tornare in forma
come niente fosse successo ai precedenti.
 

ritratto di Antonella Iurilli Duhamel
 #

Passavano i giorni ma non gli anni

strangolati da sterili rami

sospesi nel grigio

di sogni irrealizzabili.

 

Tracce d’amore

anelavano una  pienezza

immolata alla gloria

di dubbiose incertezze

tacendo paure mai comprese.

 

 #
Ho scelto di non dormire, di ignorare la notte come fosse estinta
scomparsa in un marmo levigato, ricordata più per le persiane chiuse
che per la coscienza del chiarore del tuo corpo solitario. Il tuo
fianco come un seme pietrificato.
Per questo voglio che stia senza venature, senza date.
Perché le vene ricordano il tuo abecedario di rame, la tua estate
conclamata, il mio sangue pieno di luminarie galleggianti.
E’ vero che non avrei comunque sonno. E non sarebbe buio
l’insufficienza delle palpebre chiuse. E non… ma la tua costola è dura
non mi accoglie se non dico: che peccato! se non grido esemplare:
dove sei? se uscire dal maschio è venirti dentro prima.
 
 

ritratto di Stefania Stravato
 #
si aspetta l'alba nella frana
 
le grida sono uccelli dalle ali di neve;
creature incomplete, mani distanti dal gesto dell'abbraccio
 
si aspetta l'alba, la pioggia come un sudario
raccoglie il verso muto delle ore
 
si aspetta l'alba che non verrà, soli
contando a memoria tutti i passi disciolti
nelle vie senza nome.
 

 #
Occhieggia questo nuovo tempo che sa di precedenze, di antipodi.
Annuncia la nomea del giorno: Oscuro. Un titano incatenato
da ore. La luce è in una ampolla e riversa gocce
lente che non allagano a sufficienza la notte distesa, però 
la erodono con dovizia fino all'osso dell'orologio
uno scheletro sul muro, un'afasia dall'ombra
obtorto corpo.
 
Il corpo, quando si alza, accetta il sapore di un ricordo salato.
Lo stesso spazzolino che pettina la bocca pone le parole in piega
aspettano la lingua come un foehn.
 

ritratto di Stefania Stravato
 #
è il muro l'orizzonte.
e mi sorregge malamente, pur essendo io
più sottile della mia stessa ombra
 
e fuori posto, in questa notte
 
più di una farfalla tra le onde
cerco la breccia, il vetro infranto
(se mi ferisse ancora, non sentirei dolore)
per afferrare al volo
un'estremità di luce.
 

 #
Dritto, il busto lievita le tempie. Sistema il pensiero
sopra l'aria scura. L'orizzonte delle spalle raccoglie i paralleli
nel futuro. Il futuro è una mappa che abbiamo letto ieri.
Una rotta percorsa senza saperlo, solo la scia s'intravede appena
e appena comprendi sei già oltre lo sbarco. Niente dell'acqua
lasciata ti sarà davanti, nè la goccia nè il vapore.
Perciò la vista cicatrizza le tracce, ne traccia nuove, simula
il cammino, incoraggia i glutei. Ogni tendine si prepara
con dovizia di ossigeno: le mani, ovunque si poggino,
abbracciano la vita come abeti sottovento.
Fuori una gara di freddo premia la neve 
che non cede acqua alla paglia.
 

 #
Perché appare per nascere, con un rito terreno
anche se è già venuto e noi occupati dal vuoto
ancora non sappiano da che cosa uscire. Siamo
quel gemito ripetuto, siamo echi che vanno sbattendo
e scemano, o gridiamo per sentire qualcuno. Per capirci
alziamo la voce, ci allontaniamo con un disturbo
e diciamo che è meglio, meglio per lui.
Lui però torna, gravido di secoli, ferito dal fiato, pieno di sangue
come si deve alle guerre, con un fardello di
acque sante e miracoli che sollevano gli oh-oho!, tuttavia
non basta a non bagnarsi i piedi.
E lui cammina, cammina sempre con quel profumo
di accoglienza e di foreste.
A lungo, davvero.
 
 

 #
 
Da dove apparve l’enorme baobab? quanta forza
ebbe il suo grano iniziale per andare tanto in alto?e il fortunale
che rase al suolo la periferia dei ferrovieri, non era forse un'aria
calda e tenera che ci fece spogliare prima? e tutto quel
cemento, così macchinoso, come fu che venne roccia
più che roccia stessa pure cadendo a pezzi? e tu che muti e vuoti
non farebbero così silenziosa, perché sei oltre la distanza possibile,
oltre le ali che ci vorrebbero, oltre ogni oltre in un corpo solo
tanto stanco, minuzioso per quel figlio nostro
nel giorno più lontano da allora.
Penso a te lama di luce che mi tagli
in segreto. 
 
 

 #
Nel vento si stima la tempesta. Si sceglie l’alchimia
comparsa alle balaustre puntando alto.
Diremo che l’ombrello è incapace se frustato, se se.
Diremo che l’ombrello stecca. Che non ha l’orecchio musicale.
Che pure accordandosi col tuono, non ha lampi.
Facezie da primi della classe. Qualche banco grigio, delle gocce.
C’è già una interrogazione verticale: precipitare e infossarsi
o scivolare su polveri di raggio in grondaia. E’ di là, dall’ultimo santuario
di un colmo, il cielo che viene in terra, che s’interroga, una
qualsiasi scoperta con questa voce: tic tic tic dang dang.
Tititititttttttttt, di una rapidità efficace, ha deciso di precipitare
e fiumare, a scrosci violenti, martellate. Piove, ma sembra che rida
l’aria. Io no, io tremo se ti rivedo a bracciata
ala avvolgente, mezza manica. Fuochino.
 
 
 

ritratto di Stefania Stravato
 #
dopottutto, è per natura che siamo piante d'acqua,
radici aeree che tentano le vie della luce
 
non mi stupisco del sangue che arrossa i giardini, talvolta
 
quando il vento 
cala a taglio (conosci la grotta che sfama il suo urlo?)
e sorprende nel sonno i cuori dei gigli.
 
E in fondo alle mie mani, resta la memoria
di una sera più dolce della nostalgia.
 
 
 

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In un momento, tutte le cose che tocchi
imparano ad osservare il tempo, sfuggono al tranello
dell'ora. In una volta diventano eterne.
Occorre perdonare loro la semplicità, assecondare
la spinta centrifuga delle curve, curvare con loro
la luce. Curvare su di loro noi e la nostra fretta
lasciare che ci scrivano senza errori: la stessa calligrafia
cui ci abbandonano, le lascia nude.
Le cose che stringiamo non le abbiamo mai avute.
 
 

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La voliera integra, seppure vuota, non è argomento
tra gli stormi. Radi ora, quasi assenti, scatenati. I mosaici
di ali stanno sulla cresta delle dune, nel sottogola del vento
o sono archetipi nel sogno, come traversamenti
- fuori dai piedi,
 
stupidi aviatori del magnete terrestre, manovali
dell’aria, avvitati alle stelle, che cosa cambia
dal miglio ad un colpo? La scelta, come averla.  
 
 
 

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Una stella si è spenta. La sua animosità luminescente
non ha più riferimenti visivi. Come il secolo di cristo è
una montagna con un discorso esaurito. Come JFK
le si è spappolata la parola, a Dallas così spaziosa, senza alcun grido.
Come loro, un buco prende il posto del corpo. Anzi,
nel primo inverno siderale, ai pianeti che le gravitano intorno
compare una notte eterna a memoria della luce
e in tutti gli occhi si piegano gerani albini ed altre
biancherie. In un’alba
che non mi sveglia, si alza un tuo ricordo a sorpresa.
 
 
 

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sapessi qual è la fatica di essere un corpo
che brilla di luce propria
dover sempre emanare emanare emanare,
il nucleo che ribolle, la ricerca delle propria
sequenza principale,
di un qualche stato stabile,
il rischio di collassare in buco nero o esplodere
infinitamente
ancora irraggiando materia nello spazio freddo e nero
 
sapessi come era stanca, povera stella
lei che avrebbe voluto
essere scaldata, qualche volta, essere
 
riflesso
 
 
 
 

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In tale modo è un satellite. Se pure coinvolta
non troverà altro che l’originaria neve cosmica
sia dal suo angelo suggeritore, sia dal panico
che il demone le infonde.
Tutta la santissima beatitudine delle sue rotule
stanno nell’orbita quotidiana come un congedo:
Salve, o regina dell’atomo in fuoco
salve, o carmina nell’esposizione
tu versi ad esempio quando ne dai parola.  
 
 
 

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Ti puoi accorgere che niente significa casa meglio
della porta solo quando la apri. La porta è il bottone
nell’asola della strada o cortile o giardino che sia. E da questi
è poi possibile partecipare all’universo. Puoi entrarvi o uscirne
con la stessa quotidianità di un’ape o di un lupo. Non sarai
dotato dello stesso istinto e tutte le spine faranno a gara
per saggiarti i polpacci, ma è l’unico modo per stare nell’aria
nell’aria che ti aggrega al sodalizio della vita. La porta
è quindi il vero ingresso nel creato, il ponte necessario
tra il tuo animo assediato e il gioioso armistizio dei fiori.
Ho lasciato le chiavi al tappeto in un colpo solo. 
 
 
 
 

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Dunque: cemento e cemento, ma niente
che mi appartenga.
E da tutti i vetri i riflessi fuggono
con lo stesso grido del miraggio. Niente che mi appartenga
si fa strada. Nessuna delle persone che conosco
ha un nome recente. Sono a memoria
sullo stesso piano. Cemento e cemento, poi
solitamente l’acciaio compresso lo innerva. Io che
non ho casa, non ho indirizzo a cui aspettarmi
appoggio al pilastro del sangue
l’umidità del torace che mi conserva.
 
 
 

ritratto di amara
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un tempio senza pinnacoli
e con la cuspide disegnata a pavimento
produce una preghiera piana
dove il sangue si fa tiepido e riposa
 
bisognerebbe alzare uno sguardo gotico
che sibili veloce sulla guglia
perché lo schiocco dell’adrenalina
faccia di un nome ogni paesaggio
 
 
 
 
 

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Le cose quadrano in modo naturale. Si assestano.
Non subito, magari. Poi, col tempo, sviluppano equilibrio.
Sono frenetiche nell’accadere, precipitose, ma reagiscono
alla lungimiranza della stasi
come fossero tutte d’acqua o, per la maggior parte,
senza più spigoli vivi. Solo alcune vantano rotondità
e grazia già dalla nascita. Così io ti ho vista
ultimo luogo, terra compromessa, riservata dagli occhi.
 
 
 

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Lo avevo sempre visto sulla ringhiera. Piantato
sul confine inconfondibile, pomello del lungomare, gabbiano
adeguato e sottratto al cielo. Il cielo sull’asse più alto
perchè inefficiente in terra. Lui, trapassato dal chiarore, nel vertice
basso della foschia, ostaggio
dello scirocco imbestialito, bavoso. In piedi era alto
e quella stanza tempestosa lo circondava
senza mai buttarlo giù. Non aveva casa, ma
era nella sua: mura e suppellettili leggere, da asporto, ancorchè
arruffate; e queste e gli altri senzatetto
bussavano in favore d’aria, alle orecchie, spinti
in quell’esichia marina per il rumore - io li ho ascoltati - 
dei loro rottami.
 
 
 

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qui d'altronde è casa di gabbiani impazziti, traditi
dal mare. rifiuti tra i rifiuti, vivono
gridando. li guardo roteare, grigi sul grigio
sembrano stanche imitazioni di sé
 
eppure la via di fuga è un tiro d'ala. appena
dietro l'orizzonte dei palazzi, c'è la vasta distesa liquida
nel suo letto di roccia. guarda, amore mio:
potremmo anche noi decidere per la deriva
 
attraversare la baia a colpi di vento, sporgerci
dalle murate a toccare le onde, mentre l'opera viva
taglia la superficie. un disegno di linee come un racconto
epico, una storia così bella da spalancare gli occhi.
 
 
 
 

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Se si punta l'indice. Se tramuti la mandorla nera
in bompresso. Se l'iride fa vela. Se il sè
è l'isola, l'oceano, o il primo continente da salpare.
Se c'è almeno un mio nel torace
e un marchingegno che tu hai creato rantola nelle tempie
non altri se
adesso, a lungo a lungo, devi essere fuori dai denti.
 
 

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Gli esseri ci sono tutti e altro
non potrebbe apparirci meno vistoso
della similitudine finale: il sunto e la polvere. Ma le cose
inanimate sono più a pezzi che a loro agio. Mancano
della rivolta. Non si ribellano ai guasti se non con l’esplosione
grottesca che lava ulcere rocciose. E sono più
numerose. A questo punto siamo superflui
tranne che per redigere cataloghi dei danni.
Ci muove la provvista di fiato, la comparsa
del respiro. Siamo fenomeni prima dell'apnea
                   Tutto quanto
dotato di polmoni efficienti si rivela con una tosse
in presenza di un pensiero ansioso che vuole uscire dall’ombra
o perché sostituisce un richiamo inappropriato
o perché incorpora una timidezza a comparire
nel disegno dell’incontro. Volendoci sciogliere
facciamo acqua.
 
 

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In un qualsiasi avvenire del seme
si sposta il peso dello stecco e del fuoco, mistero
piantato prima della radice. Incurabile
più di quanto si manifesti
nel minerale.
 
Minerale che ha nel seno
la vertigine di tante foreste incerte.
 
 
 

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Qualche esempio del viso
è abbandonato. Due o tre
espressioni sono senza parole.
Niente altro comporta il dato
alle labbra. Figure fuori forma
nel profilo, a tratti. Ho amato
ho amato comunque ho amato
se ancora sovrappongo, se non collimano
al nome che segue
per filo e per segno.
 
Osservo che ne passano molte
tra vetrine e sconforto.
Nel luogo che non sa di parlare
ci sono riflessi e un tumulto ormai povero.
E tu, confusa inattendibile più che altro
sei via.
 
 
 

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Il battello era nell’aria. Chi sperava
era già partito col visto.
Chi “ma cosa, come?” rimase fermo. Piantato.
Secco. Lì dov’era, di malavoglia.
Un po’ tutti sapevano che la durezza
del viaggio, in un qualsiasi parallelo
non permette vestiti comodi.
 
Quindi, per un’ora circa il battello
sembrò sospeso, né pesante né ampio. Forse,
stretto per bene, c’era lo spazio
e un po’ di tempo ancora per concedere
imbarchi. Così parlammo della fortuna
di morire sulla terra. 
 
 
 
 

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