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Zeitgeist 1

Lo Zeitgeist, lo “spirito del tempo” già. Chissà cos’è, mentre da ogni tempo si è usi apporre sul proprio tempo l’etichetta di una palingenesi, o di un “nuovo che avanza”, che lo vorrebbe dissociato nella sua unicità da tutti i tempi precedenti. Una palese chimera per noi che, per esempio, possiamo gettare un’occhiata complessiva sul ‘600 e il ‘700 e non riusciamo neanche a distinguere tra i due. Dello Zeitgeist possiamo solo dire che esiste, che è esistito in ogni epoca e in ogni cultura- ma coglierne una differenza tale per cui, chi ci visse, ritenne che fosse proprio il suo il tempo di una grande, rivoluzionaria trasfigurazione ontologica dell’uomo, come nell’Umanesimo, o ai tempi della rivoluzione francese- questo è un conto che non ci torna. Al contrario, la storia ci assomiglia di più all’andamento progressivo delle sue fasi additato da Hegel, che non ad una serie accidentale di sincopi che la sbatacchiano incoerentemente di qua e di là. Saremmo, cioè, più propensi a ritenere che queste palingenesi non ci sono e che il movimento dialettico della storia porti marxianamente le sue contraddizioni al loro puro e logico epilogo, al loro scioglimento.
Però sappiamo, sentiamo, intuiamo che è successo qualcosa in questo ultimo mezzo secolo, che, per sempre, ha davvero indotto qualcosa di inusitato e quindi di nuovo. C’è un nuovo genotipo in circolazione che, accostato al vecchio, stride lampeggiando, come acciaio e fiamma ossidrica assieme. Abbiamo vissuto, senza neanche aver avuto il debito tempo di coscienza, il tempo di una grande mutazione “ermeneutico-ontologica” che ha, per sempre davvero stavolta, completamente ribaltato i capisaldi radicali e referenziali del nostro stare al mondo. Di modo che tutte le categorie valoriali sono saltate e, di conseguenza, cose come i sogni, le aspettative, le ambizioni, massime giovanili, sono saltate anche loro, soppiantate da una specie di pragmatismo calmo e infelice, che fa solo calcoli e solo per sopravvivere. Fino a oggi.
Nessun filo tiene più legato questo neofita alla madre terra: come un Pinocchietto senza speranza, sbatte gesti inconsulti sulla sua crapa legnosa per estollervi l’idea che anche oggi, ancora per oggi gli darà da mangiare. I principi belli e cavallereschi di una volta gli sono stati estirpati dalla corsa forsennata di ognidì tra le macerie della civiltà, alla ricerca compulsiva di oggetti magari chimerici, o fantascientifici, con cui placare una fame di non si sa che cosa e che non si sa come placare. Per secoli, per millenni, i giovani si sono nutriti di ideali, figurandosi un qualche futuro che in qualche modo li avrebbe gratificati e realizzati. Per secoli e millenni, i vecchi, guardando ai giovani, si sono inteneriti davanti alle loro speranze, alle loro ambizioni. La vita proveniva dalla terra, dalle stagioni, dalla unità biologica del mondo. Chi nasceva conosceva spontaneamente la propria appartenenza, la propria specie, i ritmi, i tempi, le necessità di quella specie. Tutte cose morte, estinte, scomparse. Ci è rimasta solo la solitudine, una solitudine immensa, grandiosa, sesquipedale, che, nell’immenso fiume di miliardi di individui, non sa che pesci pigliare…
 

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