È notte, notte serena, fonda. Notte oscura, percolante. Bicarbonati sotto e sopra le scarpe ruvide di armati.
Fascino, fascino, fascino e ancora fascino. In quale imbuto mi sono perso, di quali fiaccole. Metti in gioco una parola, mettine due. Un’iniziale. Vai avanti. È pericoloso fermarsi, perdi equilibrio.
Te la voglio raccontare questa favola, figlio mio, per evitare in te ogni onanismo. Non disperdere ciò che avrebbe potuto volare. Vola tu stesso; che cadi, che sali, tu vola. Conservati.
Quale più bella morte di una colonna? Colonne di fuochi artificiali che partono insieme alla notte e sfogano nel cielo: oro, sali d’argento, rododendri. Ceneri che ricadono.
Il morso che t’hanno messo al collo è una stella. I tuoi occhi e la stella.
Da bambini era bello risalire, o scendere i fiumi. Dipendeva da dove abitavi. Se abitavi al mare avevi una sola scelta, ma i più fortunati, quelli che stavano in campagna o in collina, era come se stessero in mezzo ad un guado. Alla loro vista, spaziando, potevano aprirsi misteriosi ed intricati estuari o polle glaciali, da esploratori galattici.
Io, come piccolo abitante marino, giunsi infine alla determinazione di avere più case, di ricorrere all’affitto essendo bambino e non avendo sostanze.
Affittavo, per non più di mezza giornata, chiostri.
Erano chiostri le rupi spioventi, quelle dei ponti con i loro pilastri, quelle di un boschetto cresciuto sulle rive, o un anfratto sulla sponda opposta a quella del solito itinerario.
La scoperta di un mulino abbandonato, i suoi due canali, lì come se nulla fosse accaduto, l'entrarci di soppiatto; ascoltare sotto lo sconnesso dell'impiantito di legno lo sciabordio delle acque inerziali, era l'ottava meraviglia.
“Lo fai per sentirti le spalle coperte, smaccatamente.” Mi diceva Maurizio, mio fratello, quando, dopocena, gli riferivo dove fossi sparito il pomeriggio. Ma io non gli credevo.
“Lo faccio per l’eco.” Rispondevo e lui alzava le spalle e si tirava su il lenzuolo.
“ Era come prendersi una pausa, prestarle ascolto, capite?”
Non oso calpestarlo, né attraversarlo. È una grande rinuncia quella del profumo a dilatare i polmoni sfiancati dalla fatica dell’ozio.
Eden
D’un tratto, come invocate da una misteriosa necessità, scendono a fondo valle. Con esse la sera. Il giorno ha recato, fin dal primo mattino, segnali plumbei premonitori: voli di uccelli scarlatti eterogenei radenti i fili elettrici, più in alto frecce di germani e lassù, lassù oltre la cima dell’olimpo, lacerti di movimento non meglio definibili. Potrebbero essere oche del Canada.
Curioso questo improvviso aprirsi di un cielo maledetto prima della fine.
Il nonno mi rincuora:- Rosso di sera bel tempo si spera.
Nonostante tutto, il vegliardo resiste. Vuole godersi lo spettacolo, rannicchiato al suo solito all’estremo lembo della panchina, verde per compensare il grigio cemento tutt’intorno.
Il tempo che l’ultimo bagliore si spenga, che egli appoggi interamente le spalle alla spalliera, e là in mezzo, nelle lattiginose caligini che ci hanno ricoperto, ha inizio il concerto. Il la lo danno le rane dei fontanili, risponde un merlo semiaddormentato, esitazioni: l’incerto vuole compenetrarsi con la terra che lo ospita, con il temperamento delle nostre nature, le gentilezze, i violini della gassosità che si liquida di nuovo sui luoghi dell’origine.
Non fosse per il trombone del nonno che si è nel frattempo addormentato, parrebbe, con quella mela che ho tra le mani, di essere tornati in un vero Eden ovattato, tutto da ricostruire.
La prospettiva dovrebbe indicare la strada. Ciò che non è, affatto, è la lente di ingrandimento. Per i sopra detti motivi, le notazioni posteriori alla creazione hanno assunto importanza fondamentale : perché l’artista si è accorto che gli uomini non hanno occhi che abbracciano a trecentosessanta gradi né, tutte le diottrie necessarie.
lontane il tanto
per starci dentro
a trasmetterci la pelle, fino all’eterno
Riposi del guerriero
perduto
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