Scritto da © Winston - Mer, 06/08/2014 - 17:47
Uno. “Nutti e jornu farìa sta via!
Tutti. Viva Santa Rusulia!
U. Ogni passu e ogni via!
T. Viva Santa Rusulia!
U. Ca ni scanza di morti ria!
T. Viva Santa Rusulia!
U. Ca n'assisti a l'agunia!
T. Viva Santa Rusulia!
U. Virginedda gluriusa e pia
T. Viva Santa Rusulia!”
U. Ogni passu e ogni via!
T. Viva Santa Rusulia!
U. Ca ni scanza di morti ria!
T. Viva Santa Rusulia!
U. Ca n'assisti a l'agunia!
T. Viva Santa Rusulia!
U. Virginedda gluriusa e pia
T. Viva Santa Rusulia!”
Coro:
T. E chi semu muti? Viva viva Santa Rusulia.
T. E chi semu muti? Viva viva Santa Rusulia”.
U fistinu Capitolo II - primo episodio
Rosa Lilia Sinibaldi è stata una nobildonna palermitana, nata e vissuta nel XII secolo. Suo padre risulta essere stato il duca Sinibaldi, vassallo del re normanno Ruggero II. Di sua madre, Maria Viscardi, si dice fosse imparentata con la famiglia reale.
Dicono anche che Rosa Lilia fu scelta, per le sue qualità giovanili di cortesia e bellezza, quale damigella d'onore di Margherita di Navarra, moglie di Gugliemo I° detto Il Malo, re di Sicilia per patrimonio graziosamente acquisito dal padre.
Egli, il Malo, tenne trono nel Palazzo dei Normanni.
Giunta in età da marito, la giovane rinunciò ad andare sposa ad un certo Baldovino, nobile della stessa corte in cui ella viveva, scegliendo di abbracciare una vita consacrata, trascorsa poi fra chiostri domenicani e basiliani ed eremitaggi.
Pochi, e frammentari, i segni di una sua presenza e rilevanza quand'era in vita, mentre varie reliquie le furono attribuite circa cinquecento anni dopo la sua morte, in specie nel primo quarto del secolo XVII, quando, presso il Papato, venne fortemente perorata, dall'Arcivescovado di Parlermo. la sua santificazione. Da quest'ultimi segni, inaspettatamente numerosi, pare dedursi che vi sia stato l'eremitaggio della vergine in Sierra Quisquinia ed uno in una grotta sui fianchi del Monte Pellegrino, sovrastante Palermo.
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I bronzi della cattedrale avevano rintoccato ad ogni ora, fin da prima del Mattutino, quel giorno, richiamando nonostante il pericolo, nel tempo senza fretta in cui stava scorrendo la giornata nella grande piazza della Cattedrale, un assembramento di uomini e donne come non si era mai visto.
Alle 18,00, la pinguedine dell'Arcivescovo si fece posto nella lama di luce tra i battenti con i fregi dorati del prezioso portone di ferro verniciato di nero, appositamente lasciati a languire protetti dalla penombra interna fino a quel momento, e l'uomo, altrettanto impreziosito dagli improvvisi riflessi dei paramenti, lentamente raggiunse, con l'aiuto di un giovane diacono, la vetta dell'enorme corteo di persone che si era nel frattempo formato.
Stava per avere inizio, quel 15 luglio 1624, la prima processione in onore di una nuova prossima santa.
Davanti al clero compatto, al Senato cittadino e ai fedeli della città, l'Arcivescovo di Palermo, massima autorità religiosa e morale di Sicilia, la mitra dorata ed il bastone pastorale stretti tanto da dolergli intorno alla fronte e tra le dita massicce, tentava l'ultima mossa rimastagli in qualità di rappresentante della Chiesa romana.
La peste imperversante fino a quel momento, la sua capillare diffusione, ardeva ancora tra i vicoli e nelle case, nei palazzi, addirittura nei luoghi sacri. Un nuovo vento, anzi, sembrava essersi alzato a riattizzarla. Né il fronte delle preghiere di abati, monaci e sacerdoti, né quello dei pianti, gli abbracci disperati dei famigliari dei morti, né le processioni delle sante protettrici dei quattro mandamenti di sant'Agata, santa Cristina, sant'Oliva e santa Ninfa, né i sacrifici dei pochi medici esistenti, mostravano di essere stati finora di una qualche utilità.
Nella piena coscienza che nei periodi di guerra ogni arma è ammessa nonché benvenuta, un nuovo consigliere dell'Organizzazione aveva suggerito di raccogliere in un luogo definito quanti più resti possibili di una tale nobildonna-monaca il cui processo di beatificazione, che ora sarebbe stato utilissimo, a Roma si era arenato.
Il consigliere conosceva, confessava un popolano, un saponaro: per credulità ed entusiamo una specie di untore, persona che si muoveva frequentemente tra i vari mandamenti, una persona seria nonostante l'umile mestiere, cui avrebbe potuto essere affidata la forzatura, sia nei confronti dei più disperati, che verso le Istituzioni. Avrebbe potuto rivelare dove si trovavano le spoglie della monaca vergine, certe testimonianze tangibili della sua vita passata.
Il consiglio venne ampiamente discusso in varie sedi. Tra i più responsabili provocò malumori ed anatemi, infine fu portato, in modo riservato, davanti all'Arcivescovo.
Quell'uomo gigantesco, un guerriero, in parte costretto dalla propria dinastia, in parte perché aveva conosciuto responsabilmente, sperimentandoli con il suo Popolo, i propri limiti e possibilità, dopo aver ascoltato sia i fautori del rigetto che dell'accettazione, rimase per ore, solo, seduto sul suo scranno.
Poi, a sera, chiamò a sé, nella stanza illuminata da un solo cero che non voleva esaurirsi, il prelato più alto in grado dei conferenzieri e gli chiese, per confortarlo.
A. - Cosa rimane a noi testimoni, se non la Fede? La fede, per l'anima, è l'arma più forte. La sua memoria. La sua difesa. Tu, cosa dici?
P. - Non me la sento, S.E. Non voglio morire di vergogna davanti a Dio.
A. - La questione ora è non più sull'anima, ma dell'animo. Gli rispose il suo vescovo. - Quale sarebbe l'altra arma per fermare l'epidemia?
P. - Non abbiamo medici. Siamo indietro, indietro.
A. - Potremmo mai uccidere tutti i ratti, i topi della città, delle campagne intorno? Di quanti uomini avremmo bisogno?
P. - S.E. datemi tutti gli uomini di buona volontà, disposti a morire. Ho poco tempo.
A. - Sei già infetto.
P. - Si.
A. - Anch'io.
P. - Allora?
A. - Fai radunare tutte le reliquie e manda in giro, molla il saponaro. Impossibile perdere Dio; sarebbe impossibile per me.
P. - La vostra vita, e la mia, sono già perse.
A. - Quelle si. Ora mandami un diacono che devo scrivere a Roma. E...non perdermi la forza.
Sulla porta, il prelato si voltò indietro.
L'Arcivescovo, ad occhi chiusi, stava reclinando il capo esausto sullo schienale dello scranno.
- Follia. Vuole essere pronto per il 15 di luglio. Con questo solleone, la peste già in corpo. Così gonfio! Però, forse ha ragione lui. Diamoci da fare con questi topi.
Sua Eminenza Card. Giannettino Doria cadde una prima volta a metà della processione, mentre si trovava al centro di piazza Vigliena.
Tutti videro il ginocchio vacillare poi poggiato a terra; chi si trovava oltre i senatori, non potendo vederlo, lo comprese dalla propagazione della vacuità degli sguardi che si rincorrevano all'indietro cercando conforto nel volto della medesima moltitudine di cui faceva parte.
La folla, schiacciata dall'enormità di quanto si stava immaginando fosse accaduto là davanti, pensò bene, prima, di disperdersi, e ci furono in effetti alcune defezioni verso le code del corteo, poi si ricompattò unanime attorno al proprio vescovo.
Qualcuno, dalle estreme propaggini di quella nebulosa, gridò a squarciagola di rimuovere gli ostacoli e far si che si dovesse proseguire.
Ora devo ricordare come S.E., oltre ad essere un esperto delle lingue greca e latina, fosse venuto casualmente a conoscenza della lingua inglese.
Inviato in missione ad Edimburgo, gli era stata sottoposta all'esame una Bibbia di quelle che correntemente si iniziavano a trovare in quel Paese, scritta sul fronte per l'appunto in lingua locale, con tutte le inflessioni territoriali del monaco che l'aveva scritta e, di fianco, la versione romana che egli avrebbe dovuto collazionare.
Era stato in quella versione da licenziare che il cardinale aveva trovato una frase all'inizio, in copertina, rimasta scolpitagli nella mente, tanto da non più dimenticarla.
La stessa frase che pronunciò, subconsciamente, quando battè il ginocchio a terra:
- I would prefer not to. (Preferirei di no.)
Ricca, a parer suo..
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