E lui,
semidisteso sulla panca in marmo della Stazione Centrale,
tra il vociare increspato di passanti infreddoliti,
mi guardava ogni mattina
con lo sguardo furbastro di chi conosce la vita
e con cuore meditativo
vive l'inerzia dell'esistenza piagata.
Eravamo diventati amici
con poche parole scambiate a ventaglio,
le sue rivestite di un dialetto indefinito,
e ricordo che
quando masticava con le gengive un pezzo di pane
assumeva un'espressione ridicola, quasi da clown.
Lo salutavo allungandogli qualche moneta
e l'avevo soprannominato professore
per la sua aria da filosofo sognante.
Mi ripeteva ossessivamente che all'albero della vita
nessuna foglia rimane attaccata,
mentre con sguardo melanconico osservava
accucciato tremante al suo fianco
un ridicolo quattrozampe rivestito di
qualche pelo rossiccio, lacerato dal tempo
che ormai lo stava abbandonando..
come se si stesse scucendo la vita di dosso.
Lui lo accarezzava con le mani
protette da mezzi guanti sdruciti
sussurrandogli parole incomprensibili
che il cane ricambiava con occhiate che spezzavano il cuore,
leccando con amore quelle dita piagate dal freddo.
Avevano entrambi trovato una ragione di vita
nell'affetto e nel calore che si scambiavano,
e non provavo pietà...se non quasi invidia....
Ma una mattina la panca desolatamente vuota
senza coperta,senza cartoni,
mi fece capire la triste realtà.
Li avevano portati via all'alba
lui e quattrozampe teneramente abbracciati,
come due amanti
uniti in un lungo sonno.....
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